Crescono le società partecipate: 403. Voragine da 149 milioni in Campania. Per i magistrati contabili è stata la classica fatica di Sisifo. Nonostante gli sforzi, nemmeno loro sono riusciti a tracciare i contorni esatti della incredibile galassia delle società regionali. Qualcuno, la Regione Sardegna, semplicemente non ha fornito i dati.
Qualche altro, la Sicilia, li ha spediti incompleti: senza le cifre del personale. Soprattutto, nel rapporto sulla finanza regionale appena pubblicato dalla Corte dei conti, manca ciò che sta a valle delle società regionali, quel magma indistinto e ribollente di controllate e collegate delle controllate, partecipazioni, consorzi. Nonostante ciò, lo scenario resta impressionante: anche perché segnala come la ritirata del pubblico dall’economia sia per ora una vana speranza. Sardegna esclusa, le società delle Regioni sono 403, nove in più rispetto alle 394 del 2012: senza contare, ovviamente, quelle di secondo e magari anche terzo livello. Per avere la percezione di quanto sia esteso quel magma, si consideri che la Finlombarda, holding della Lombardia, ha 11 partecipazioni. E pressoché ogni Regione ha almeno una situazione del genere. Perfino il piccolo Molise, la cui finanziaria regionale ha un portafoglio di ben 15 partecipazioni. Quattro in più rispetto alla stessa Lombardia.
In testa c’è la Sicilia, con 33 società di primo livello, alcune delle quali avviate alla liquidazione dalla nuova amministrazione. Appena tre di meno ne ha la Campania, seguita dall’Emilia Romagna (28), dal Lazio e dalla Calabria (27). La gamma è completissima: società di trasporto, imprese di servizi, aziende culturali, ditte di marketing… Ce n’è per tutti i gusti. Chi ama il dolce apprezzerà lo Zuccherificio del Molise. Chi ama il salato, invece, preferirà l’industria salina Italkali, controllata al 51 per cento dalla Regione siciliana. Non mancano poi le sigle capaci di trarre in inganno anche i più esperti. La Sma, Sistemi per la meteorologia e l’ambiente Campania, per esempio, ha ben poco a che fare con le previsioni barometriche. È una società che si occupa del servizio antincendi. Con 678 dipendenti, quasi 10 milioni di perdite nel 2011 e un patrimonio negativo per 6 milioni. Il sito internet illustra il contesto nel quale è nata dieci anni fa: «Venne costituita a seguito delle iniziative regionali volte alla stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili». Fatta la premessa, se ne decantano i risultati raggiunti, spiegando che la superficie media percorsa dal fuoco si è ridotta fra il 2002 e il 2011 da 3,68 a 1,83 ettari a incendio. Anche se il numero degli incendi, nell’ultimo decennio, è stata di 3.290 l’anno contro i 2.049 del decennio precedente all’esistenza della Sma. L’amento è del 60,5 per cento.
E che dire dell’Astir? Trattasi di un’altra società campana che si occupa di smaltimento di rifiuti, con 481 dipendenti, messa in liquidazione un paio d’anni fa causa «paralisi» dell’attività, dopo aver accumulato nel solo 2010 perdite per oltre 24 milioni. Nonostante questo, nell’aprile di quell’anno, quando era già con l’acqua alla gola si è provveduto all’assunzione di 38 persone con procedure, ha scritto il liquidatore nella sua relazione, «in violazione delle norme di evidenza pubblica e del patto di stabilità». Quindi in seguito licenziate: gli è andata male. Destino diametralmente opposto a quello toccato ai 60 dipendenti transitati senza colpo ferire da Sviluppo Italia a Sviluppo Campania, società controllata dalla Regione e affidata a un giovane dal curriculum impressionante. Si chiama Alessandro Gargani, incidentalmente figlio dell’irpino Giuseppe Gargani, europarlamentare dell’Udc, ex deputato, ex sottosegretario, transitato in precedenza a Forza Italia e prima ancora nell’Ulivo: proveniente dalla Dc di Ciriaco De Mita, dove era capo della segreteria politica.
Con quei 60, i dipendenti delle società regionali campane risulterebbero 2.349. Ma si capisce quanto i dati limitati agli organismi di primo livello siano bugiardi tenendo conto che le imprese di trasporto pubblico possedute dall’Ente autonomo Volturno, il quale nella lista della Corte dei conti non risulta avere alcun dipendente, pagano circa 4 mila stipendi. E si va ben oltre quota 6 mila. Da aggiungere al personale regionale: circa 7 mila unità. Da sole, le imprese pubbliche della Regione ora governata da Stefano Caldoro avrebbero così più dipendenti di tutte quelle delle Regioni a statuto ordinario.
Di certo, stando almeno ai dati della magistratura contabile, le società campane sono quelle con i conti più complicati, se è vero che in due soli anni, il 2010 e il 2011, hanno perduto 149 milioni di euro. Un buco addirittura più grande di quello accumulato nello stesso periodo da tutte le imprese di tutte le Regioni italiane censite dalla Corte dei conti: circa 143 milioni.
Proprio per le carenze di informazioni, in alcuni casi decisivi come nel caso della Sardegna e dei dipendenti delle imprese pubbliche siciliane (che non dovrebbero comunque essere meno di settemila), nonché a causa delle difficoltà di delineare il perimetro esatto delle società regionali, è problematico valutarne l’impatto preciso sui conti degli enti proprietari.
Il documento ci offre però un interessante metro di giudizio per misurare lo stato di salute. È quello dell’indebitamento. A fine 2012 le Regioni italiane (senza Sardegna) avevano debiti per 47 miliardi e 774 milioni. Ovvero, qualcosa più di 800 euro per ogni cittadino italiano. Ma con differenze enormi. Basti dire che il nuovo governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha ereditato un indebitamento monstre di 10 miliardi 302 milioni, pari a 1.854 euro per ciascuno dei residenti nella sua Regione. Conto quarantacinque volte più salato di quello (41 euro) che teoricamente incombe su ogni trentino . Una bella torta, con sopra la gradevole ciliegina di 2 miliardi 158 milioni di derivati. Che non rappresentano nemmeno il record assoluto considerando che la Campania, con 5 miliardi 713 milioni di debiti, ha 4 miliardi 580 milioni di derivati, pari all’80,1 per cento del totale. Mentre la Puglia è a quota un miliardo 740 milioni, l’89 per cento addirittura dei quasi due miliardi di debiti che ha in pancia.
Sergio Rizzo – Corriere della Sera – 18 settembre 2013