di Francesco Verderami. In primavera quasi certamente l’Italia tornerà alle urne: per le elezioni anticipate oppure per il referendum sull’abolizione del Jobs act, che dopo la riforma costituzionale rappresenta l’altro simbolo dei «mille giorni» di Renzi a Palazzo Chigi. È vero che la Consulta ancora non si è espressa, ma nel governo come in Parlamento scommettono che la Corte darà l’ammissibilità del quesito. In quel caso si andrebbe a votare in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno del prossimo anno. A meno di un ritorno al voto per il rinnovo delle Camere, che farebbe slittare il referendum di almeno dodici mesi.
È una variabile non secondaria nei calcoli che le forze politiche stanno facendo sul timing della legislatura, è un problema soprattutto per il leader democratico oltre che per il nuovo governo e la sua maggioranza. Perché se attorno all’iniziativa della Cgil si coagulassero i Cinquestelle, la Lega e i vari spezzoni della sinistra — minoranza dem compresa — si riprodurrebbe il blocco del «fronte del No» alle riforme costituzionali (forse con l’eccezione di Forza Italia) e si riproporrebbe lo scenario del 4 dicembre.
La bocciatura del Jobs act, che decretò la storica abolizione dell’articolo 18, sconfesserebbe il triennio renziano a Palazzo Chigi, comprometterebbe le possibilità di «rivincita» dell’ex premier e azzopperebbe il Pd e i suoi alleati nella corsa elettorale, spianando la strada delle forze antisistema verso la vittoria. Certo, la Consulta deve ancora pronunciarsi. Certo, il governo proverà a correggere parti della legge per tentare di far saltare il referendum. Certo, stavolta la consultazione per essere valida avrebbe bisogno di superare il quorum.
Ma a parte l’incognita della Corte, a parte l’impossibilità per l’esecutivo di reintrodurre l’articolo 18, a parte il nodo dell’affluenza alle urne, nella maggioranza si scorge il rischio. Per evitare la prova, almeno per posticiparla, ci sarebbe una sola soluzione: andare al voto in primavera, approvando rapidamente una nuova legge elettorale. Il fatto è che la linea dettata dal capo dello Stato ha spostato la regia della riforma dal governo al Parlamento, dove tra le forze politiche, e dentro le stesse forze politiche, emergono posizioni divergenti. Persino nell’esecutivo affiorano due opposte strategie: secondo Alfano le Camere dovrebbero iniziare a lavorare alla legge «senza aspettare la sentenza della Consulta sull’Italicum»; secondo la Finocchiaro bisognerebbe invece «partire dalla sentenza della Corte».
È una babele di voci e di alleanze inedite: da una parte i grillini e Renzi, che per interessi contrapposti vorrebbero accelerare per il voto in primavera; dall’altra Berlusconi, che per arrivare al 2018 fa sponda con un pezzo del Pd, anche di maggioranza. Bastava notare la tensione che c’era nella delegazione democratica salita al Quirinale per le consultazioni. L’espressione con cui Guerini ha seguito il discorso del compagno Zanda, al quale era stata affidata la dichiarazione. E infine il sollievo del vice segretario dem, sopraggiunto solo dopo che il capogruppo al Senato ha pronunciato la frase concordata: «… Per andare alle urne nel più breve tempo possibile…».
Ma dietro le liturgie per ora non c’è nulla. Forse perché c’è già chi aspetta che la Corte faccia piombare sul Palazzo il referendum sul Jobs act, che imporrebbe alla maggioranza di trovare una via di fuga. Se così fosse, non sarebbero state parole di circostanza quelle pronunciate ieri alla Camera da Rosato nel dibattito sulla fiducia. «Nessuno pensi di usare la legge elettorale per far durare qualche giorno in più la legislatura», ha detto il capogruppo democrat: «Non ci vogliamo impantanare». Per uscire dal pantano, l’unico rimedio sarebbe andare al voto applicando come modello elettorale la sentenza della Consulta. Che arriverà prima della sentenza sul referendum.
Il Corriere della Sera – 14 ottobre 2016