Tutto come previsto. L’Istat ha diffuso la sua nota sugli Indicatori di mortalità della popolazione residente, pubblicazione che di solito interessa soprattutto gli specialisti ma che ieri era attesissima soprattutto per un numero, quello della speranza di vita a 65 anni. L’istituto di statistica l’ha fissata a 20,7 anni nel 2016, in crescita rispetto ai 20,3 del 2013. Una differenza che convertita in mesi ne vale cinque. Ecco così che i requisiti previdenziali legati all’andamento demografico cresceranno in corrispondenza dal primo gennaio 2019: in particolare l’età della vecchiaia salirà da 66 anni e 7 mesi a 67 tondi, il periodo di contribuzione necessaria per la pensione anticipata passerà da 42 anni e 10 mesi a 43 e 3 mesi per gli uomini e da 41 e 10 mesi e 42 e 3 per le donne.
IL CALO DELLA MORTALITÀ
Il dato reso noto dall’istituto di statistica è lo stesso già diffuso nel marzo di quest’anno e riflette un sensibile calo della mortalità nel corso del 2016: 32 mila decessi in meno rispetto all’anno precedente, che invece aveva fatto segnare un picco per certi verso anomalo di questo fenomeno demografico. Così la speranza di vita ha recuperato in un solo anno l’arretramento del 2015. Non c’erano molte possibilità che l’Istat rivedesse i numeri della stima provvisoria, ma la sua comunicazione era circondata dall’attenzione generale perché rappresentava sul piano tecnico l’ultima possibilità di scongiurare il salto di cinque mesi in particolare per quel che riguarda l’età della vecchiaia; che approda invece alla cifra tonda e in qualche modo simbolica dei 67 anni.
LE PROSPETTIVE
Nonostante questo la nota dell’istituto di statistica è stata seguita da reazioni piuttosto virulente di forze politiche e sindacati. Qualcuno ha avanzato dubbi sulla correttezza del calcolo in particolare in relazione all’inversione di tendenza del 2015, che però risulta appunto ampiamente assorbita. I sindacati chiedono in ogni caso di rivedere il meccanismo. Susanna Camusso della Cgil lo ha definito «follia di un automatismo perverso», Cisl e Uil hanno espresso concetti simili con toni appena un po’ più morbidi. A questo punto però per intervenire serve una legge che annulli quanto previsto dalla normativa in vigore. Il ministro del Lavoro Poletti non ha del tutto chiuso la porta. «Essendoci un anno di tempo abbondante davanti ci sono i tempi per una discussione su questo tema» ha fatto sapere. Più rigida era apparsa la posizione del presidente del Consiglio Gentiloni e del ministro dell’Economia Padoan alla conferenza stampa successiva all’approvazione della legge di bilancio. «Applicheremo la legge» aveva scandito il premier. Se la pressione politica dovesse concretizzarsi già nelle prossime settimane potrebbe essere preso in considerazione un emendamento alla stessa manovra, con il quale rinviare il termine per l’adozione del previsto decreto ministeriale, che deve limitarsi a recepire l’indicazione dell’Istat. Altrimenti – una volta adottato il decreto – la questione sarà rinviata a dopo le elezioni e quindi al prossimo esecutivo.
Oltre 80 mila persone devono rinviare l’uscita
ROMA Cinque mesi in più al lavoro, anche se proprio non del tutto imprevisti. La legge che lega la data della pensione all’evoluzione dell’aspettativa di vita è stata votata nel 2010 e poi confermata e perfezionata con la riforma Fornero dell’anno successivo. L’adeguamento dei requisiti era già stato applicato due volte, nel 2013 (3 mesi fissati in anticipo, anche se i dati demografici avrebbero detto 5) e nel 2016 (4 mesi). Che nel 2019 ci sarebbe stato uno ulteriore scatto in avanti era noto a lavoratori e datori di lavoro; si trattava di sapere di quanto. I cinque mesi ufficializzati ieri dall’Istat impressionano forse di più rispetto al passato, un po’ perché per la vecchiaia portano all’età tonda di 67 anni, un po’ perché l’inversione di tendenza della speranza di vita nel solo anno 2015 aveva fatto immaginare un passaggio meno brusco.
I FLUSSI
Proprio nel caso della vecchiaia è possibile individuare con relativa precisione almeno le caratteristiche anagrafiche di coloro che dovranno prolungare la permanenza al lavoro. Viene praticamente tagliata in due la classe 1952, che già era stata quella più colpita dalla drastica riforma entrata in vigore nel 2012. Chi è nato entro il mese di maggio compirà i 66 anni e 7 mesi richiesti dalle regole attuale entro dicembre 2018, e quindi potrà uscire al più tardi il primo gennaio successivo. Invece i nati da giugno in poi maturerebbero questo requisito nel nuovo anno, 2019, ricadendo così nella più severa condizione dei 67 anni che potranno compiere appunto a partire dal mese di giugno: la prima uscita possibile sarà per loro a luglio, sei mesi dopo i loro quasi-coetanei.
Per quanto riguarda invece la pensione anticipata il panorama è più variegato perché saranno bloccati coloro che – a prescindere dall’età – non faranno i tempo a maturare i previsti 42 anni e 10 mesi di contributi (se uomini) o 41 e 10 mesi (per le lavoratrici). Ugualmente però andranno messi in conto cinque mesi di lavoro in più, a un’età più bassa di 67 anni ma avendo iniziato a lavorare in età piuttosto giovane.
Quanto è grande la platea coinvolta? In assenza di cifre certe, per avere un’idea indicativa si può fare riferimento al monitoraggio dei flussi di pensionamento realizzato regolarmente dall’Inps. Nel primo semestre del 2015 le nuove pensioni di vecchiaia e anticipate liquidate dall’istituto erano state circa 140 mila, cifra del tutto analoga a quella del 2017. In mezzo, nel 2016, c’era stato un brusco calo a poco più di 80 mila nuovi trattamenti, in concomitanza del gradino di quattro mesi scattato nel 2016. Applicando in proporzione questo scarto di quasi 60 mila unità al blocco più incisivo del 2019 (cinque mesi) e aggiungendo alcune migliaia di lavoratori pubblici e di altre categorie si arriverebbe ad almeno 80 mila pensioni in meno nel semestre, che poi naturalmente scatterebbero nei mesi successivi.
LA CREDIBILITÀ
Quel che è certo è che il mancato adeguamento all’aspettativa di vita porterebbe seri problemi ai conti previdenziali del Paese: non tanto per il solo 2019 ma in prospettiva, se il meccanismo fosse del tutto cancellato. Il presidente dell’Inps Boeri, senza fornire ulteriori dettagli, ha quantificato tutto ciò in una maggiore spesa cumulata di 141 miliardi da qui al 2040. Ma il governo teme oltre all’impatto finanziario anche il contraccolpo in termini di credibilità che ci sarebbe a livello internazionale anche con la sola messa in discussione del parametro demografico, dopo che l’Italia negli anni ha presentato il proprio riassetto della previdenza come garanzia di sostenibilità nel lungo periodo delle finanze pubbliche.
Il Messaggero – 25 ottobre 2017