di Stefano Simonetti, il Sole 24 Ore sanità. Si deve purtroppo prendere atto che una grave problematica che sembra non avere mai fine è quella delle continue violenze nei confronti del personale sanitario nell’espletamento delle sue funzioni. La stampa locale e i siti specializzati nei giorni scorsi hanno riportato la notizia che una dottoressa è stata aggredita con un coltello a Padova da un paziente all’interno dello Iov (Istituto Oncologico Veneto). Ovviamente il Presidente della Regione Veneto e l’Ordine dei Medici di Padova hanno espresso la più ferma condanna per un gesto di enorme viltà e hanno manifestato piena solidarietà alla vittima dell’aggressione.
Da parte sua, il presidente della Fnomceo ha chiesto che sia rafforzata la sicurezza delle strutture sanitarie e che i medici non siano mai lasciati soli, in quanto la presenza di personale può essere un deterrente contro le aggressioni. Giustissime le reazioni e i commenti, ma non bastano più. Tra l’altro, non lasciare soli i sanitari appare, oltre che molto difficile, forse inutile perché frequentemente gli episodi avvengono in presenza di molte persone, come nel caso oggetto di una recentissima pronuncia della Suprema Corte relativa a una vicenda – un’infermiera schiaffeggiata da una parente in visita parenti – che ricorre quotidianamente nei nostri ospedali, ma che molto raramente finisce davanti a un Giudice, soprattutto di legittimità (Corte di Cassazione penale, sez. VI, sentenza n. 39320 del 18 ottobre 2022).
Sono già intervenuto sul tema parecchie volte su questo sito, segnalando quanto la legge 113/2020 fosse lontana dalla sua piena realizzazione e alcune sue lacune. Chi scrive sostiene da due anni che la legge in questione ha ancora molti spazi di miglioramento e anche i contratti collettivi possono contribuire a combattere questo fenomeno. Sul piano della prevenzione le difficoltà sono notevoli, considerato anche che la legge di due anni fa non ha stanziato un solo euro per la sicurezza. Maggiori risultati si potrebbero ottenere sul piano della repressione. In particolare, affinché il quadro repressivo possa diventare più completo, ho suggerito:
• obbligatorietà della segnalazione alla Procura da parte dell’azienda sanitaria;
• la obbligatorietà della costituzione di parte civile dell’azienda;
• la previsione del danno all’immagine per l’azienda e del danno esistenziale per il sanitario;
• introduzione della pena accessoria del volontariato in ospedale;
• per i casi più gravi o reiterati benefici similari a quelli stabiliti per le donne vittime di violenza;
• se presente il dolo specifico e il concorso di più persone, si potrebbe pensare a pene accessorie quali l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, alla sospensione del godimento dei diritti politici, spingendosi fino alla revoca o sospensione dell’iscrizione al Ssn;
• specifiche polizze integrative dell’assicurazione obbligatoria nell’ambito del welfare aziendale;
• rivalsa della retribuzione erogata ai dipendenti assenti dal servizio a causa delle aggressioni;
• finalizzazione dell’importo delle multe alla sicurezza del personale sanitario, come già avviene nel Ccnl della Dirigenza sanitaria.
Quello che manca completamente nella legge – e l’episodio della settimana scorsa lo ha evidenziato drammaticamente – è la repressione degli attacchi alla struttura sanitaria in quanto tale, cioè come presidio di erogazione dell’assistenza, perché le norme della legge 113 si riferiscono sempre alle persone fisiche e mai alle istituzioni. Gli assalti premeditati e devastanti ai Pronto soccorso – così come quelli a singoli sanitari nell’espletamento delle loro funzioni – costituiscono una aggressione allo Stato e allo stesso principio costituzionale di tutela della salute e dovrebbero trovare una forma di repressione specifica.