Dal Giornale di Vicenza. I cadaveri allineati in un corridoio. In attesa della vestizione prima di essere esposti nelle celle dell’obitorio, o in sosta prima dell’autopsia. Una visione macabra. Una narrazione dolorosa. Storie di corpi anonimi chiuse nel gelo impenetrabile della morte a contatto con la vita indifferente.
Le salme sono a contatto con un laboratorio dove fino a qualche giorno fa lavoravano tecnici dell’anatomia patologica davanti a microscopi e provette. È il corridoio della vergogna. Come se ne vedono in alcuni ospedali medievali del Burundi o della Siria devastata da una guerra interminabile. Cadaveri in corsia, con l’ombra di Caronte in agguato, senza gli epitaffi di Spoon River e le voci di Edgar Lee Masters. Una provvisoria fossa comune a cielo coperto, ingombra di corpi semi-nudi, non degna di un ospedale come il San Bortolo. Una situazione che ora, finalmente, il direttore generale Giovanni Pavesi – a caccia, da quando a gennaio si è insediato a Vicenza, di tutti i punti neri più o meno nascosti o dimenticati dell’ospedale – vuole cancellare. «Basta con questa situazione».
Così la stanza dei tecnici è stata subito svuotata. Ora, almeno, non si lavora e non si passa più vicino a cari estinti ancora da seppellire. Ragioni di igiene. Bisogno di dignità. Il tempo qui si è fermato. Nel secolo scorso i morti passavano per questa corsia in mezzo a medici, biologi e tecnici. Oggi il viaggio si ripete fra miasmi nauseabondi che impregnano le pareti. L’edificio vecchio, stretto e compresso, privo di collegamenti interni, che ospita l’anatomia patologica, rimane un girone infernale, un habitat da quarto mondo, in contrasto con il reparto, diretto dal primario Emanuele D’Amore, che rappresenta, fuori da proclami e palcoscenici, una delle eccellenze del San Bortolo, un punto di riferimento essenziale per diagnosi e terapie in campo istologico, citologico ed ultrastrutturale, nelle campagne di screening oncologici. Il posto è lo stesso, da catacombe, di 50 anni fa, alle spalle delle camere mortuarie. Un ibrido in cui convivono vetrini e celle frigorifere. D’Amore e i suoi collaboratori si sono abituati, ma per chi vi ritorna la sensazione è sempre sconcertante. «La nefrologia è il Veneto – sussurra il primario -. Questa è l’Africa». Il fatto è che i lavori per trasferire l’anatomia patologica nell’edificio di fronte dalla facciata giallo-asburgico non finiscono mai. La parte interna è stata ristrutturata, ma l’interno resta al grezzo. I lavori sono iniziati 5 anni fa, ma poi il cantiere si è fermato per un anno dopo il rinvenimento negli scavi di decine di scheletri di un antico cimitero. Così la previsione di traslocare nella nuova casa entro il 2014, è slittata. L’ex dg Angonese aveva promesso di compiere la missione entro il 2015. Ma realisticamente se ne parlerà forse per il 2019. Colpa di un progetto faraonico da 10 milioni arenatosi sui tavoli veneziani, mentre ora si è scoperto che con un disegno logistico più contenuto ma funzionale da 500 mila euro si può rifare tutto. Pavesi, comunque, non accetta più ritardi e tempi lunghi. Una sala dell’anatomia è stata spostata nell’attigua sezione della medicina necroscopica. Le cappe dell’aerazione sono state rinnovate. Gli impianti adesso sono tutti a norma. Gli odori pungenti da fogna, qualche volta da topi in libera uscita, non si sentono più. Sono miracolosamente scomparse le macchie di umido e non piove più dentro. «L’intenzione – spiega l’ingegnere capo Antonio Nardella – è di concentrare qui la medicina legale. Si faranno solo autopsie. Si ricaverà una seconda sala autoptica». Insomma, non più passaggi angusti, ambienti lillipuziani, colori consunti, penombre diffuse da sottomarino alla deriva adagiato sul fondo dell’oceano. Ma un paesaggio decoroso anche per chi muore.
Cadaveri in corsia. Servono tre anni per rifare gli spazi
Obitorio di 50 anni fa. Una grande bruttezza. Il peggiore del Veneto. Ingorgo di defunti coperti in qualche modo da lenzuoli pieghettati nell’anticamera delle celle. Cadaveri che passano davanti ai laboratori. Salme parcheggiate in fila indiana lungo il corridoio della vergogna, o in doppia, tripla fila. Orrore e disgusto. Odori acri, sulfurei, di disfacimento che ti restano addosso. Impatto forte, crudele, che non si dimentica, ma anche tanta rabbia davanti a questa visione di corpi depositati come merce in magazzino. Uno scenario da bolgia dantesca. Ma né misteri, né fantasmi. La causa è nota da molto, troppo tempo, sempre congelata, pur nel susseguirsi dei board dell’Ulss, nel libro delle questioni irrisolte, dei desideri mai esauditi. Ed è la coabitazione ibrida fra i laboratori dell’anatomia patologica e la sala delle autopsie in locali angusti e orrendi che confinano con le camere mortuarie di questa morgue medievale. Una realtà cruda, destinata – pare – a restare senza variazioni ancora per 3 anni. Solo nel 2019 è previsto il trasferimento dell’anatomia patologica nel fabbricato color giallino-asburgico che si trova di fronte, un pezzo dell’ospedale ottocentesco recuperato nella facciata esterna ma ora da sistemare radicalmente all’interno. La spesa non è eccessiva: 500 mila euro. Ma i tempi si allungano, anche se, quando si approvava il progetto qualche anno fa, si annunciava che tutto sarebbe andato in porto entro il 2014.
UN ITER TRAVAGLIATO. Un primo blocco di un anno lo impose la sovrintendenza quando negli scavi si ritrovarono decine di scheletri come nel cimitero delle Fontanelle a Napoli. Poi si ripartì con altri annunci, ma la verità è che il traguardo appare ancora lontano. L’ospedale, fra sesto lotto, chiostro, manutenzione, è tutto un cantiere. I ritmi non sono cinesi, ed è impossibile sperare in un’accelerazione anche se il dg Giovanni Pavesi ha dato la precedenza assoluta a questo impegno rivolto a vivi e morti. Con lo sgombero dell’anatomia patologica questa vecchia sede, un dedalo di stanze divise da pareti in cartongesso ma anche una marcia a ostacoli fra porte e vetrini, verrà smantellata e rifatta, per essere destinata solo alle autopsie della medicina legale. Le sale autoptiche saranno due. E si ricaveranno, finalmente, gli ambienti per i defunti. La stanza del commiato. Quella per la preparazione delle salme. Il passaggio verso le camere ardenti. Insomma un obitorio civile, in cui dare anche ai familiari la possibilità di accedere.
TEMPI LUNGHI. «A Bassano è diverso – spiega il titolare di un’agenzia di pompe funebri -. C’è una sala arredata e dignitosa in cui si collocano i defunti. Un’altra sala dove può operare l’impresa. Qui a Vicenza siamo fermi a mezzo secolo fa. È sempre stato così. Una struttura fatiscente, spazi strettissimi, dove non si può fare nulla. Per fortuna il nuovo direttore generale vuole metterci mano. Era ora». Il vaso di Pandora scoperchiato mostra un’antica incuria, come se questo luogo dell’ospedale fosse da nascondere per esorcizzare la morte. Una catacomba. Non siamo più all’anno zero fa quando era tutto fuori norma. L’aria non è più nauseabonda. Ora ci sono le canaline dell’aerazione, le cappe aspirano i fumi tossici, gli impianti sono migliorati, l’ufficio tecnico ha cercato di tamponare il possibile, ma il quadro resta desolante, da after day. Per il personale ci sarà ancora da penare fra miasmi in libera uscita e soffitti bucati come groviere. Le salme sfileranno ancora nel lugubre corridoio in forma di ombre dopo aver bevuto l’acqua del Lete e prima di iniziare il viaggio verso l’Ade.
«RISPETTO PER I MORTI». È preoccupato per questa situazione che non cambia anche Narciso Zocca, presidente dell’Addima, l’Associazione per i diritti dei malati, punto di riferimento al San Bortolo di chi ha una protesta da fare o un torto da denunciare. «I defunti, anche se hanno perso tutti i diritti, vanno rispettati. Il dolore dei familiari è sacro. Ci vogliono spazi adeguati. Ci vuole un minimo di riservatezza», afferma Zocca. Che poi conclude: «Si deve consentire a chi soffre di stare vicino al proprio caro anche prima dell’esposizione o di rimanere nella cella mortuaria senza dover attendere malinconicamente il proprio turno».
Il Giornale di Vicenza – 18 e 19 agosto 2016