Chiusi cinema, stadi, scuole «È peggio della guerra». Il coraggio dei dottori, le squadre dei ragazzi-becchini: condannati (per sopravvivere) a non sbagliare nulla
DAL NOSTRO INVIATO KENEMA (Sierra Leone) — Prima di chiudere la fossa dove il tecnico di laboratoro Ibrahim Fambullah, 43 anni, è stato calato in un sacco bianco, gli spalatori aspettano che i burial boys si tolgano lentamente gli scafandri. Hanno le magliette fradice di sudore, i ragazzi della «squadra sepoltura». Si capisce che fremono per riprendere i motorini e andarsene. Ma l’ultima operazione è la più delicata. Un errore banale, un gesto istintivo come asciugarsi il sudore dagli occhi con un guanto contaminato, e il virus ti frega. Così, mentre si svestiva dopo l’ennesimo massacrante giro in reparto, si è infettato ed è morto il dottor Sheik Umar Khan, l’eroe nazionale di questa guerra. Giù all’ospedale la sua gigantografia sorride appesa ai muri, veglia anche sul capannone dove aspettano i membri di questa eroica banda becchini. Sono decine, motivati e analfabeti (a causa della guerra civile che ha devastato la Sierra Leone dal 1991 al 2002 con 50 mila vittime), ragazzi come Ibrahim Kamarà, barbetta da ventenne e maglia di Neymar, un fratello ucciso da ebola e una missione da compiere: «Salvare la nazione». Gli amici li schifano, i familiari li cacciano, però i burial boys si sentono importanti. Questa è la loro ora. Tre cadaveri, arrivati uno alla volta su stradine secondarie per non spaventare la gente, messi di traverso sui pick-up. All’inizio usavano le rare ambulanze, ora i camioncini per combattere l’ebolafobia: «Nessuno voleva più salire perché ci caricavamo i morti» dice Kamarà. Il cimitero all’imbrunire risuona del canto melodioso degli uccelli. Terra rossa rubata con il machete alla vegetazione tropicale, caldo opprimente, nessun parente intorno. È la paura. C’è soltanto James Massally, il responsabile del laboratorio analisi, a piangere il suo braccio destro, il quarto collega a morire nel giro di cinque giorni, in piedi tra i cartelli in metallo con i nomi dei caduti dipinti da uno scrivano con i guanti. Pantaloni neri, camicia bianca, scarpe della festa, James pronuncia poche parole di commiato nella foresta deserta. Pensare che anche lui ha contribuito a disegnare il genoma di ebola partendo dai campioni di sangue raccolti proprio qui a Kenema, nell’unico ospedale esistente, dove la stessa barella serve a portare dentro i malati e fuori i morti (altamente infetti). C’è anche il nome di James in calce allo studio appena sfornato dall’università di Harvard che servirà per la ricerca di un vaccino. Visto da qui sembra assurdo. Giusto lavorare al genoma, ma qualcuno nel frattempo vuole mandare una barella nuova? L’Oms, il braccio sanitario dell’Onu, sta tagliando la missione ebola anziché potenziarla, mentre il 40% delle 1.900 vittime si contano nell’arco delle ultime 3 settimane. I pochi occidentali che si infettano vengono subito evacuati in Europa e negli Stati Uniti per essere giustamente curati in reparti speciali. Mentre qui scarseggiano cose basilari: stivali, guanti, cibo, personale sanitario, le tute della banda becchini…
Bianchi e bardati come spendibili soldatini di Guerre Stellari, i quattro ragazzi che hanno portato il corpo di Fambullah si sfilano i preziosi Ppe (personal protective equipment ) impermeabili e soffocanti, e le sovrascarpe. A ogni passaggio interviene Kamarà, lo sprayer , lo «spruzzatore», spargendo cloro su mani e stivali. Hanno movimenti sincronizzati, di routine. L’ultimo, di prassi, offensivo per i morti e necessario per i vivi: i ragazzi buttano gli scafandri nella fossa, gli spalatori gettano terra su quella piccola discarica biologica, cinque tute e un defunto.
È una città chiusa, Kenema. L’ex capitale dei diamanti isolata per ebola. Almeno due distretti a oriente della Sierra Leone, da qui fino a Kailahun, sono stati messi in quarantena. Posti di blocco militari. Non si entra e non si esce. Questa zona è la grande incubatrice dell’epidemia, iniziata nel dicembre scorso in un villaggio oltre il confine con la Guinea, dall’incontro fortuito tra un pipistrello della frutta (vettore principale del virus) e un bambino di 2 anni. Scendendo a sud-est il contagio è esploso a Monrovia, capitale della Liberia. Spostandosi verso ovest ha raggiunto Bo fino a toccare Freetown (oltre 50 casi accertati). È la strada che abbiamo percorso in senso opposto con una missione di «Medici con l’Africa Cuamm», ong di ispirazione cristiana che dal 1950 ha allungato le sue radici dalla diocesi di Padova a questo continente (oggi è in 7 Paesi con 168 operatori, 111 medici): dal 2012 Cuamm opera in un piccolo ospedale nell’Est della Sierra Leone, nel poverissimo distretto di Pujehun, con cinque italiani che cercano di salvare i bambini dalla malaria e le madri dalla morte per parto. Si sono trovati in mezzo all’emergenza ebola e si sono dati da fare, creando a Pujehun uno dei pochi centri di isolamento per pazienti sospetti. Il nome della ong è sul fuoristrada e non sempre è un lasciapassare. Unisa, il guidatore, dice che così è difficile trovare parcheggio in città: «Vedono la parola doctors e ti chiedono di andartene». Anche a Freetown, oltre un milione di abitanti, la paura di ebola contagia tutto e tutti: chiusi cinema e stadi, rinviata l’apertura delle scuole, proibiti i gruppi con più di cinque persone, passeggeri scaglionati sui minibus Poda Poda. Sulla larga spiaggia della capitale dei ragazzi giocano a pallone illegalmente: «Vedi come stanno vicini all’acqua? — dice Unisa — Così riescono a vedere da lontano se arriva la polizia». Sulla via dell’ospedale principale, il Connaught, si affacciano una chiesa e una moschea (il tesoro nazionale, la convivenza tra religioni). È una zona storica della «città libera» fondata nel 1787 come centro per ex schiavi riportati in Africa dalle Americhe. Proprio dove c’è l’ospedale gli schiavi liberati venivano visitati dai medici britannici. Qui due settimane fa è morto il dottore che dirigeva il reparto ebola, da qui una parrucchiera infetta è scappata perché i parenti volevano fosse curata a base di erbe e kola da un sowei, un guaritore tradizionale (morta lei e la famiglia). È qui che abbiamo avuto il primo impatto con l’epidemia: dietro le sbarre dell’unità di isolamento (12 letti), ora diretta dalla dottoressa spagnola Marta Lado, un giovane sospetto sbraita perché vuole uscire, sostiene di essere sano. La guardia armata e un’infermiera dall’esterno cercano di calmarlo. A una delegazione dell’Oms la dottoressa Lado ha detto: «Cosa ci serve? Personale ed equipaggiamento. Anche le scorte di guanti monouso cominciano a calare». I centri di isolamento, quelli attrezzati per assistere i casi sospetti in attesa degli esami, si contano sulle dita di un guanto: Medici Senza Frontiere a Kailahun e a Bo, Cuamm a Pujehun, a Freetown il Connaught e l’ospedale pediatrico di Emergency dove una mamma con due gemelli di tre anni pochi giorni fa sono stati trovati positivi. Poiché gli unici centri di trattamento per ora sono l’ospedale governativo di Kenema e quello di Kailahun con le tende di Msf, i contagiati prendono tutti la stessa strada verso Est, che è anche la nostra.
«Ebola è peggio della guerra» dice Franco Miari. Emiliano di Carpi, in Sierra Leone da 34 anni, il suo ristorante sulla spiaggia fuori Freetown è un’istituzione segnalata dalle guide. Fino a maggio faceva 280 coperti ogni week-end. Da allora ha fatto 80 clienti in tutto. Ferme le barche dei pescatori di aragoste, deserti i resort e le spiagge candide (dove è stato girato lo spot dello snack Bounty). Il crollo del turismo e la fuga degli stranieri da alberghi e miniere appaiono minimi effetti collaterali dell’epidemia, ma con l’aumento dei prezzi e i raccolti a rischio sono segnali di un Paese paralizzato da ebola così come le vicine Liberia e Guinea. Anche Franco non ha le idee chiare sul virus («Si prende con il respiro?»), ma ha una macchina che produce clorina disinfettante: «Me l’ha data un orafo di Arezzo che produce oggetti per il Vaticano, era destinata a un istituto per ciechi nel nord della Sierra Leone ma poi hanno scoperto che il voltaggio era incompatibile». Ai ciechi una macchina nuova, a Miari quella vecchia. La clorina di questi tempi è più ricercata delle aragoste: i contenitori sono disseminati all’entrata dei negozi e lungo la strada ai posti di blocco dei militari. Sotto le tende ai viaggiatori viene misurata la temperatura con un termometro-pistola laser. Chi ha più di 38 viene fermato. Al limitare di Kenema, 130 mila abitanti, dopo chilometri di strada deserta ti fermano comunque. Comincia la terra di quarantena, roccaforte del virus. Con il fotoreporter Luigi Baldelli superiamo il checkpoint perché Dante Carraro, medico e sacerdote da vent’anni alla guida di Cuamm, ha un contatto con il capo del distretto sanitario Mohamed Vandi, nell’ospedale che a luglio una folla inferocita voleva bruciare.
Ora la situazione è se possibile più tranquilla, nel senso che a suon di morti molti hanno capito che «ebola is real», non è una finzione o una cospirazione del governo per chiedere soldi all’estero. All’ospedale c’è posto solo per ebola e per i suoi spettri. Letti vuoti negli altri reparti, come in tutto il Paese: per la paura del virus killer si muore a casa di altre patologie. Fuori Kenema stanno costruendo un nuovo centro di trattamento. Ma intanto la prima linea resta qui: oltre 160 morti accertati a fine agosto, 175 guarigioni, il bilancio si allunga ogni giorno. Davanti all’ufficio di Vandi le aspettative per il futuro sono appese a un camioncino con l’insegna dei Mondiali Dubai 2020. C’è chi sparge sale in giro perché un leader religioso la ritiene un’arma efficace contro l’epidemia. Il capo distretto confida di più nella clorina: quando arriva, con le scarpe di vernice, passa oltre mezz’ora a innaffiare l’ufficio con lo spruzzatore. Dopo un minuto sul divanetto davanti alla sua scrivania abbiamo i pantaloni inzuppati. È preparato e gentile: ha la famiglia a Freetown, non torna a casa da maggio, ha messo a punto una rete di centinaia di «tracciatori» di quartiere, che cercano e monitorano le persone che hanno avuto contatti con i malati e devono essere isolate a casa: «Ogni persona infetta potrebbe averne contagiate altre 15-20». L’incubazione varia da 2 a 21 giorni, è infettante solo chi manifesta i sintomi. Il virus si trasmette per contatto diretto con i fluidi corporei di un malato: tutti, comprese le lacrime. Ebola sfrutta l’ignoranza ma anche l’umana pietà. Vandi racconta di un imam che si è infettato chiudendo gli occhi a un defunto, di un sacerdote cristiano morto per aver abbracciato un malato. Mentre ci accompagna al limitare dell’area ebola, dove arrivano le ambulanze e le persone che possono camminare, con un certo sollievo ci sentiamo dire che è proibito entrare nelle camerate dove si trovano 68 malati confermati, 11 sotto i dieci anni.
Qui il virus ha ucciso almeno 27 operatori sanitari (su un totale di 130 nei tre Paesi più colpiti), da Sheik Khan a Ibrahim Fambullah all’ultimo medico morto due giorni fa. Chi arriva con qualche malanno affronta un percorso a tappe, un necessario calvario di paura. Sotto il tendone del triage c’è il primo verdetto, ci raccontano due della Croce Rossa, il colombiano Alejandro e Sharon dalla Nuova Zelanda. Adulti soli, mamme o padri con bambini in braccio sono in attesa. Con almeno due sintomi sospetti (per esempio febbre alta e vomito) si prosegue dentro la zona off-limits, verso l’area dei prelievi di sangue. Altrimenti si torna indietro verso altri reparti, come accade a quella madre con un furtivo sorriso che esce adesso dal cancelletto. Per i sospetti, l’esito dell’esame arriva nel giro di 4 ore. Questa mattina un uomo è morto nella zona d’aspetto, racconta un infettivologo del Montana in missione per l’Oms, George Risi, madre bolognese, padre napoletano. Risi è arrivato una settimana fa in questo ghetto che ha i suoi caduti e i suoi miracolati. È il ghetto delle ebola nurses. Al momento 30 infermiere, guidate dalla veterana Josephine Sellu, 42 anni. «All’inizio non eravamo pronti, stiamo imparando ogni giorno» racconta la caposala nel suo ufficio-cubicolo prefabbricato, a distanza di sicurezza «di saliva» (almeno un metro), tra la tenda del triage e la zona off-limits. Nel suo diario di vita e di morte ci sono tanti nomi, tante storie. C’è Zaineb Kanè, infermiera di 25 anni, che «un giorno è tornata a casa e ha trovato tutte le sue cose fuori dalla porta. Il marito l’ha cacciata: o con me o con Ebola». Zaineb ha scelto: ha dormito all’ospedale, le colleghe hanno fatto una colletta e le hanno trovato una stanza fuori. Fatmata Sesay ha preso ebola in reparto, l’ha passato alla figlia Tata di 11 anni. Entrambe sono guarite (come il 50% dei malati): «Ho sentito Fatmata al telefono — dice Josephine — lei e le altre sopravvissute: abbiamo bisogno di loro, torneranno». Forse tornerà anche William Pooley, 29 anni, l’infermiere volontario inglese evacuato a fine agosto con un volo della Raf. Dopo una settimana in un centro specializzato di Londra è guarito. «Ah, caro William — dice Josephine — Un bravissimo ragazzo. Credo l’abbia contagiato un bambino, Boboselu, un anno di età. È arrivato attaccato al seno della mamma malata. Sono rimasti dieci giorni. Quando lei è morta, il 15 agosto, Boboselu è risultato negativo agli esami». Ebola ti frega sui sentimenti, che esplodono senza curarsi dei tempi di incubazione. Il padre di Boboselu non lo voleva a casa, era solo al mondo, così le infermiere l’hanno tenuto all’ospedale. «William è quello che più gli ha fatto festa, lo teneva in braccio, gli portava i biscotti». Dopo tre giorni il bambino ha la febbre alta: rifanno l’esame, positivo. È morto di lì a poco. Appesa dietro la scrivania di Josephine, che le giovane infermiere chiamano «mammina», c’è la foto di Boboselu. Alla sera, seguendo l’eroica banda becchini, abbiamo cercato invano la sua fossa. Il cimitero nella foresta avanza in fretta.
Michele Farina – Corriere della Sera – 6 settembre 2014