L’en plein è fatto. A distanza di mezz’ora, al Senato, la maggioranza allargata ad Azione e Iv, con Matteo Renzi in veste super garantista scatenato contro il dem Filippo Sensi, incassa, 104 a 56, il via libera al ddl Nordio sull’abuso d’ufficio. Poi ecco il sì alla “norma Costa”, il bavaglio alla stampa, due righe per vietare di pubblicare l’atto di partenza di un’inchiesta giudiziaria, l’ordinanza di custodia cautelare.
Il Guardasigilli Carlo Nordio siede sullo scranno dei ministri, ma solo per il suo ddl, poi sparisce. Ci si sarebbe aspettati da lui un “ola” in aula, ma parla una volta fuori per inneggiare al «garantismo e alla presunzione di innocenza, principio non negoziabile finché sarò ministro ». Per la seconda volta, visto l’evento eccezionale della sua presenza, in aula la grillina Ada Lopreiato lo saluta con la mano «ehi, ministro, sono qui…».
Sul voto segreto grida un «non vi fa onore» il capogruppo berlusconiano Maurizio Gasparri. E sghignazza piegandosi su se stesso mentre ringrazia chi, dai banchi Dem, col voto segreto, avrebbe votato per la maggioranza «in chiave garantista». Perché l’M5S lo ha chiesto e pubblicizzato sia sull’abuso che sul bavaglio, ma poi lo ha ritirato. E il centrodestra spettegola sulla fuga di voti a sinistra, una ventina su 50, che già s’era verificata ed è stata “scoperta” e criticata dal forzista Pierantonio Zanettin.
Canta vittoria Enrico Costa, il responsabile Giustizia di Azione che s’è inventato il bavaglio piazzato nella legge di Delegazione europea alla Camera, ha litigato con Nordio che ha tentato di dissuaderlo solo perché l’idea non era stata sua, e ora gongola perché «è passata la mia norma para fango, la mia legge dignità, per garantire a chi esce da innocente dai processi di non essere marchiato a vita». Per la stampa èuna giornata di lutto, mentre la Ue chiede conto al governo della stretta sull’informazione, nonché di quella su abuso d’ufficio e traffico di influenze. L’ex pm di Palermo Roberto Scarpinato, oggi senatore M5S, sulla norma Costa dà un’interpretazione convincente: «Avete trasformato la notizia in un’opinione, perché un conto è il giornalista che riporta il testo dell’ordinanza, un conto è il riassunto». Un’opinione appunto, non una citazione incontrovertibile.
In tre ore di dibattito c’è una notizia nella notizia. Bocciati pure gli emendamenti di Pd e M5S, sottoscritti da Ivan Scalfarotto di Iv, sul carcere, giusto nel giorno in cui si arriva a 18 suicidi; 58 milioni alle case per detenute madri, 30 per gli psicologi, dieci per case protette, 90 per interventi straordinari nelle carceri, 40 per le case di reinserimento sociale. Tutto respinto, e Walter Verini attacca il sottosegretario Andrea Delmastro «che frequenta gli istituti di pena per fare grigliate e intrattiene rapporti opachi con la polizia penitenziaria e non è andato nel carcere di Reggio Emilia». Una cronaca da chiudere con la Dem Anna Rossomando: «Un ddl che afferma una cultura illiberale e che lascia i cittadini senza protezione».
Con il passo indietro sul reato sarà più difficile punire la prevaricazione del potere
Vi raccontiamo una storia: un ragazzo, una mattina, si trova su una spiaggia calabrese. Intravede in lontananza due ragazze poco più che ventenni. Si avvicina loro, fa qualche battuta, accarezza il cagnolino che portavano al guinzaglio, chiede di scattare qualche fotografia. Le ragazze rifiutano, forse si spaventano e si allontanano. Lui insiste, le rincorre, dice di essere un carabiniere fuori servizio. Quelle si infilano in una macchina e fanno per scappare quando il militare chiede i documenti di identità costringendole ad attendere l’arrivo di una pattuglia che lui nel frattempo aveva chiamato. Così le ragazze, terrorizzate, sono costrette a restare. Tornate a casa, però non ci stanno. E presentano una denuncia: «Il carabiniere, davanti al nostro rifiuto di fare amicizia con lui, ci ha spaventato abusando del suo potere», scrivono. Risultato: quattro mesi di condanna per abuso di ufficio.
Ecco, oggi questa storia – accaduta qualche anno fa e terminata con una sentenza di Cassazione – non esisterebbe. O meglio, il carabiniere farebbe comunque il cretino, ma non ci sarebbe alcun giudice in grado di condannarlo. Perché quel reato, non esiste più. Lo ha cancellato il Parlamento che – spinto dalla crociata degli amministratori pubblici, stufi di finire oggetto di indagini che molto spesso finiscono nel nulla – ha cancellato con un colpo di spugna il reato di abuso di ufficio,ignorando gli allarmi lanciati dai procuratori italiani, compresi dai magistrati antimafia, primo tra tutti il procuratore nazionale Giovanni Melillo.
Gli addetti ai lavori avevano spiegato chiaramente come l’abolizione del reato – e non una sua trasformazione – avrebbe lasciato scoperti comportamenti delicatissimi. E assolutamente odiosi. Per rendersi conto di cosa stiamo parlando basta leggere le ultime sentenze di Cassazione sul tema che dimostrano come l’abuso di ufficio non è soltanto il reato del sindaco che affida una sala comunale a un’organizzazione benefica piuttosto che a un’altra, come ama ripetere l’Anci. Ma significa tante cose: un carabiniere molestatore, appunto. Ma molto di più.
Lo ha raccontato bene in una tesi di dottorato una giovane giurista, Cecilia Pagella che ha analizzato le ultime 500 sentenze di Cassazione sull’abuso di ufficio. E ha smontato appunto il paradigma secondo cui il reato di abuso di ufficio colpiscasoprattutto i pubblici amministratori, e in particolare i sindaci. «La maggior parte sono dipendenti o consulenti esterni di aziende pubbliche, ma anche direttori di carcere, presidi, professori universitari,medici». Sul tipo di reato «la situazione più ricorrente è quella del pubblico amministratore che sfrutta la sua posizione per conferire ad altri vantaggi illeciti» scrive. Per esempio: l’affidamento di un appalto, l’assegnazione di un incarico, il via libera a costruire un’opera urbanistica. Sono situazioni dove oggi in alcune volte si potrebbe pensare di contestare il peculato ma nella maggior parte dei casi porterebbero a nulla. Risultato: il sindaco e la giunta che annullarono gli avvisi di pagamento dell’Ici ad alcuni loro elettori a pochi giorni dall’elezione, anni fa sono stati condannati. E ora lo sarebbero molto difficilmente.
Così come sarebbero non punibili tutte le prevaricazioni, quelle circostanze in cui «un pubblico ufficiale utilizza la propria posizione percagionare un danno gratuito a un altro privato». In sostanza gli abusi di potere. C’è il caso del carabiniere respinto ma anche quello del sindaco che revoca l’incarico a un dirigente per il solo motivo che quello si era candidato contro di lui alla carica di primo cittadino. Oppure, ancora, la storia di un pubblico ministero che chiede il rinvio a giudizio contro l’ex della sua compagna nei cui confronti, in precedenza, aveva deciso di archiviare il procedimento. Tutti casi che in commissione giustizia sono stati evidenziati da uno dei più stimati giuristi italiani, il magistrato ed ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo Draghi, Roberto Garofoli, che aveva sottolineato come con l’abolizione del reato «il cittadino non ha più alcuna tutela rispetto alle angherie del pubblico ufficiale». Garofoli aveva portato in aula anche i numeri: per abuso di ufficio ci sono state 3.600 le condanne dal 1997 a oggi, con un brusco rallentamento dal 2020 in poi, quando l’ultima riforma che si era occupata dell’abuso di ufficio aveva già svuotato, riperimetrandolo, il cuore del reato. E poi: è vero che l’85 per cento di procedimenti iscritti è poi archiviato, ma la media nazionale di tutte le altre fattispecie è del 62 per cento. Si era chiesto Garofoli: «Si dovrebbe concludere perciò solo per l’abolizione di centinaia di altri reati?». A questo governo meglio non dare idee.
Repubblica