C’era una volta l’Italia della Dolce Vita, come la definì l’Economist, quell’Italia gonfia di debito pubblico ma che consentiva ai suoi cinquantenni di andarsene in massa in pensione anticipata per godersi la vita o i nipotini, oppure per avviare una seconda attività magari in nero. Un immenso pensionificio. Quell’Italia non c’è più. O, meglio, se resta il peso della spesa previdenziale accumulata, non solo abbiamo chiuso la fabbrica delle pensioni ma per la prima volta nella sua storia l’Italia sta drasticamente riducendo il numero dei pensionati. Finora ne sono spariti ben 600.000, qualcosa come la città di Genova: a fine 2008 erano 16,8 milioni, secondo le ultime statistiche disponibili sono scesi a 16,2 milioni. Si tratta di una inversione di tendenza di enorme portata se si pensa che nel 1960 erano appena 5 milioni gli italiani che ricevevano un assegno Inps e che per 50 anni, ogni anno fino al 2011, le falangi dei pensionati italiani si sono gonfiate senza sosta.
L’INVECCHIAMENTO Ma come è possibile che un paese a rapido invecchiamento, come l’Italia, veda crollare il numero dei propri pensionati? Semplice: chiedetelo ai cinquantenni le cui prospettive di vita sono state sconvolte. Uno sconvolgimento figlio innanzitutto, ma non solo, del drammatico effetto delle due riforme pensionistiche del 2008 (delineata però quattro anni prima) e di quella del 2011 varata dal governo tecnico di Mario Monti. Entrambi gli interventi hanno prima attaccato e poi azzerato le pensioni d’anzianità e poi hanno innalzato verticalmente il muro dell’età pensionabile per allontanare nel tempo l’uscita dal lavoro di milioni di italiani. Il risultato è chiaro. La contabilità Inps ormai fotografa un fenomeno diventato stabile: ogni anno i pensionati si riducono di circa 100.000 unità poiché i deceduti ammontano grosso modo a 500.000 all’anno mentre nelle braccia dell’Inps finiscono non più di 400.000 persone che lasciano il lavoro. Tutto questo a dispetto dei 15 miliardi circa investiti dalla politica per abbassare l’asticella della riforma Fornero sul fronte degli esodati, ovvero di coloro che a causa dell’improvviso innalzamento dell’età pensionabile erano rimasti senza stipendio e senza pensione. Strano destino quello dei cinquantenni odierni. Sulle loro spalle sembra essere caduto il peso dell’intero Paese. Non solo tocca loro lavorare parecchi anni di più ma, grazie al fatto che nel mondo del lavoro arrivano pochi ventenni a causa della crisi delle nascite iniziata una trentina d’anni fa, ormai rappresentano la vera spina dorsale del lavoro italiano.
Le cifre sono impressionanti. Nell’aprile 2008, ovvero prima della crisi (e della stagione delle riforme) i lavoratori maturi in attività erano 5 milioni e mezzo. Oggi (maggio 2017) sono oltre 8 milioni. In altre parole in pochissimi anni l’incremento dei cinquantenni al lavoro è stato del 50%. Molto più dell’aumento dell’8,3% della popolazione ultracinquantenne che è passata da 18,5 milioni a quota 20 milioni. Le novità sul profilo degli italiani più maturi non finiscono qui e talvolta vanno a smentire alcuni luoghi comuni come quelli, radicatissimi, dei pensionati poveri. Che esistono naturalmente, ma oggi incidono molto meno sul totale. Non a caso in sette anni il reddito pensionistico medio è passato da 14.373 euro a 17.323 con un incremento del 21% – ben superiore a quello del costo della vita – che non dipende dalla rivalutazione (spesso solo parziale) di cui hanno goduto i pensionati in questi anni. Il fatto è che oggi fra i 400 mila neopensionati annui ce ne sono molti che hanno goduto di carriere lavorative lunghe e solide e dunque possono contare su pensioni più alte di quelle di qualche anno fa. Persone la cui rendita è ancora più robusta del previsto proprio a causa delle riforme di cui abbiamo parlato che hanno ritardato l’uscita dal mondo del lavoro. Le rendite meno magre assicurate alla maggioranza di coloro che lasciano il lavoro sono una delle ragioni di un ultimo paradosso che emerge spulciando i conti Inps: nonostante il crollo dei pensionati, in questi anni non solo la spesa assoluta è aumentata, ma anche il peso delle pensioni sul Pil italiano è cresciuto e resta tra i più alti in Europa.
IL CONFRONTO INTERNAZIONALE Negli anni pre-crisi, infatti, il peso delle pensioni non superava il 14% del Pil italiano, cioè della ricchezza annuale complessiva ma nel 2014 la previdenza italiana ha assorbito il 16,5 % del Pil, contro il 15% della Francia e il 12% della Germania, anche se da allora è poi iniziato un lieve calo. Ma allora bisognava imporre sacrifici previdenziali ancora più duri? Il realtà il picco di incidenza delle pensioni sul Pil è una polpetta avvelenata della crisi, una conseguenza statistica dalla caduta del prodotto interno lordo. Dunque la morale di questa storia è amarissima: possiamo anche spezzare le reni ai cinquantenni, ma se non ritroviamo la strada della crescita del Pil e non riusciamo ad aumentare produttività e valore aggiunto del nostro sistema economico corriamo il rischio che enormi sacrifici scavino solo un gigantesco buco nell’acqua.
Il Messaggero – 10 luglio 2017