Continua la crescita del Gruppo Veronesi, prima azienda «autoctona» della provincia di Verona (davanti c’è Autogerma, importatore di Volkswagen) e quarta realtà agroalimentare italiana per fatturato che, nel bilancio 2016 appena approvato dall’assemblea, si attesta su 2,8 miliardi di euro, con un Ebitda di 93 milioni di euro. Nell’ultimo anno, incremento significativo delle esportazioni (+6,5%, pari a 472 milioni), mentre gli investimenti si attestano sui 118 milioni (il 4,2% dei ricavi). Fondato nel 1958 dal «patriarca» Apollinare, il gruppo Veronesi (pollo, uova, salumi, mangimi) dà lavoro a 8mila persone in sedici siti produttivi in giro per l’Italia. Oggi è guidato da Bruno Veronesi, quintogenito di Apollinare.
Presidente Veronesi, la spaventano i venti protezionistici che spirano per il mondo proprio ora che il vostro export cresce?
«Il protezionismo non può colpirci, perché il nostro sbocco è il mercato europeo che per noi non ha barriere. È così sia per una questione di gusti dei consumatori sia per una nostra politica: la distribuzione e la logistica del pollo richiede tempi veloci, avendo una shelf life molto breve. Così i nostri mercati principali sono diventati i Paesi a noi limitrofi, in particolare Francia e Germania. E il nostro export, se in valore percentuale non pare molto alto, lo è in valore assoluto: siamo tra i principali esportatori nel nostro settore».
Con i marchi Negroni e Fini Salumi siete grandi produttori di insaccati, che non sono prodotti freschi.
«E infatti quelli li esportiamo anche in Giappone e Stati Uniti, ma con numeri che per noi sono ancora relativamente bassi. Guardiamo con molto interesse oltre oceano, specialmente a paesi come la Cina in cui c’è una grandissima domanda di carne di suino ma dove oggi noi italiani non possiamo esportare, a differenza dei produttori tedeschi e nordeuropei».
Occasione persa?
«Diciamo che il lato positivo è che tutto il maiale che dalla Germania va alla Cina ha fatto salire la domanda anche del maiale italiano. E per noi, che siamo grandi produttori, c’è quindi un valore aggiunto più elevato».
È sugli insaccati che concentrerete le vostre strategie di crescita?
«Abbiamo in partenza un nuovo salumificio a Correggio, dove abbiamo fatto grossi investimenti. Ma abbiamo anche ampliato lo stabilimento avicolo di Nogarole Rocca, potenziandolo notevolmente. D’altra parte noi, per politica aziendale, lasciamo sempre tutti gli utili in azienda.Facciamo investimenti che guardano ai prossimi 20 o 30 anni, perché crediamo nell’azienda e nel suo futuro. La base di tutto è avere impianti che siano sostenibili non solo ecologicamente – a Vicenza abbiamo stabilimento a costo energetico zero – ma anche economica: impianti efficenti, con l’ultima tecnologia disponibile, per competere sul costo della manodopera».
Quanto vi coinvolge la sfida dell’Industria 4.0?
«Tantissimo. I nostri tempi di risposta al mercato devono essere brevissimi, con l’ordine che deve arrivare in tempo reale sulla linea di produzione: in questo internet e automazione industriale aiutano moltissimo».
Sarà un modo anche per accorciare il gap competitivo con i concorrenti esteri?
«Il mio principale concorrente, che è tedesco, ha costi di energia elettrica e manodopera molto minori. La Germania non è forte solo nell’auto, lo è sempre più anche nell’agroalimentare. In percentuale, esportano più di noi, 26 per cento contro 16. Noi, certo, abbiamo delle eccellenze, il marchio “made in Italy” tira sempre, ma il sistema Paese è debole, anche rispetto ad altri stati come Danimarca e Olanda. Da noi manca ancora la consapevolezza di mettere l’impresa al centro».
Il Gruppo Veronesi, con il suo fatturato miliardario, è in un certo senso ancora un’impresa familiare, no?
«Sì, se è il senso è che il capitale è ancora tutto nelle mani della famiglia. Ma se la Borsa, che a me come opzione è sempre piaciuta, ci dà la possibilità e crede nel nostro settore, noi siamo pronti. Sarebbe importante soprattutto per finanziare una politica di acquisizioni: perché noi siamo grandi se guardiamo all’Italia, ma lo siamo un po’ meno nel contesto europeo».
Quanto vi manca, in termini dimensionali, per competere ad armi pari con i concorrenti tedeschi e nordeuropei?
«Una dimensione ottimale sarebbe arrivare a 5 miliardi, circa il doppio di quanto siamo oggi: ci darebbe una dimensione da leader europei per affrontare i mercati in tutto il mondo».
Alessio Corazza – Il Corriere del Veneto – 20 maggio 2017