Il Corriere del Veneto. «Siamo di nuovo in guerra». Allarga le braccia un medico internista dell’ospedale di Schiavonia, il primo Covid Hospital nato in Veneto il 21 febbraio scorso e appena riaperto, vista la seconda ondata di contagi. Così come sono tornati in funzione gli altri, creati dalla Regione a Belluno, Vittorio Veneto, Treviso (il San Camillo), Dolo, Mestre (Villa Salus), Jesolo, Trecenta, Santorso, Villafranca e Borgo Roma, a Verona. Consentono di aumentare i posti letto «strategici» da 744 a 2.985: 825 di Terapia Intensiva (a regime ordinario sono 494), 383 di Terapia Sub-intensiva (da 85) e 1.777 di Malattie infettive (da 165). Il «Piano emergenziale per l’autunno» prevede in Terapia intensiva 460 posti, 185 in stand-by e 155 letti attivabili, per un totale di 800, entro il 30 ottobre ampliabili a 840 e, in caso di estrema necessità, a 1016. Una macchina pronta a entrare in azione a step (la Regione sta preparando un piano), a seconda dall’andamento della curva del contagio (Rt), salita a 1.15 e in continua ascesa.
Ma c’è un problema che «dall’esterno non si vede». «Noi sanitari siamo già stremati da otto mesi di lotta al Covid-19 — dice il dottor Andrea Vianello, direttore della Fisiopatologia respiratoria dell’Azienda ospedaliera di Padova e responsabile della Terapia Sub-intensiva — doversi rituffare in questa tragedia non entusiasma nessuno, i sentimenti dominanti sono la stanchezza e la depressione. Allo scoppio dell’epidemia abbiamo reagito con vigore, anche perché avevamo davanti l’estate e speravamo in un contenimento del contagio. Ma la prospettiva invernale lascia intravvedere scenari pessimi, negli ultimi giorni la situazione si è rapidamente aggravata: solo qui a Padova contiamo 40 pazienti Covid in Malattie infettive, che ha aperto un nuovo piano, e 12 in Terapia intensiva. Stiamo riattivando anche gli 8 posti letto di Sub-intensiva». In effetti i ricoveri continuano a crescere in tutta la regione: sono 509 (+32) agli Infettivi e 59 in Terapia intensiva (+7). «Il personale degli ospedali è stremato — aggiunge Vianello — e l’idea di ricominciare, di doversi intabarrare di nuovo con le pesanti protezioni per mesi è dura. Fuori sembra quasi che il problema sia superato, c’è una percezione molto lontana dalla realtà che noi viviamo con preoccupazione e fatica». Anche perché in attesa del vaccino (182 sono in valutazione e 40 in sperimentazione sull’uomo), non esiste ancora una terapia risolutiva. «L’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, ha riconosciuto ufficialmente solo il cortisone come trattamento per il Covid-19 — spiega la professoressa Evelina Tacconelli, primario di Malattie infettive in Azienda ospedaliera a Verona — quindi dobbiamo continuare a utilizzare un cocktail di principi. Come il plasma iperimmune, il Remdesivir, l’idrossiclorochina e altri farmaci. C’è poi un secondo problema: stiamo continuando ad aprire letti, 30-50 alla volta, perché non abbiamo mai rifiutato nessun paziente e nemmeno possiamo rimandare a casa o trasferire in altri reparti i degenti non più in fase acuta ma non in grado di tornare a casa. Però abbiamo bisogno di più personale, pronto subito — avverte Tacconelli — non è pensabile mandare in prima linea colleghi a un mese dalla laurea e allora o dobbiamo distogliere medici e infermieri da altri servizi, chiudendoli, oppure ne vanno assunti altri. E non li avremo subito». A Verona le Malattie infettive hanno raddoppiato a 20 i letti di una sezione, dedicato ai malati non Covid i 10 dell’altra e attivato ulteriori 20 posti insieme alla Pneumologia, il cui primario Claudio Micheletto scrive su Fb: «Non siamo contenti di rientrare, a marzo affrontavamo l’ignoto, ora sappiamo che ci aspettano fatica, sudore, vestiti pesanti, maschere». «I pazienti che arrivano in ospedale sono gravi come quelli di allora — chiude Tacconelli — del resto il nostro reparto non è rimasto Covid-free nemmeno un giorno».
La carenza di specialisti, mai risolta (nel Veneto ne mancano 1558), grava soprattutto sulle Terapie intensive: -148, secondo l’ultima ricognizione della Regione. Difficile dunque utilizzare tutti i 1016 letti previsti. «È una sofferenza comune a tutto il Nord Italia — conviene il professor Paolo Navalesi, coordinatore delle Terapie intensive — nonostante solo a Padova le borse di studio per specializzandi siano passate da 20 a 65, ci sono pochi anestesisti e tanti preferiscono andare a lavorare nel privato o all’estero. Abbiamo margine per trovarne, la situazione ora è sotto controllo, siamo all’erta ma molto lontani dalla situazione di marzo». L’età dei degenti si è abbassata da oltre 70 anni a 45/60, quindi sono più reattivi alle cure, anche perché meno colpiti da co-morbilità. In compenso un’ondata di accessi sta travolgendo i Pronto Soccorso. «Stanno saturando i reparti medici — conferma il dottor Francesco Corà, primario a Vicenza — un malato Covid vale tre degenti ordinari, perché ha tempi di guarigione lunghi, fino a tre settimane. E se non c’è più posto in reparto, dobbiamo tenerli al Pronto Soccorso (8 letti Covid e 30 generalisti, ndr ), distogliendo tempo e risorse agli altri. Durante il lockdown gli accessi erano scesi a 75, ora ne contiamo 190 al giorno, più 15 al Pronto Soccorso Covid. Non so per quanto tempo il personale potrà reggere». «Il carico di lavoro per testare tutti i casi sospetti c’è — rivea il dottor Paolo Rosi, a capo del Dipartimento regionale Suem 118 — e a fine mese iniziano i lavori in tutti gli ospedali per allestire prefabbricati, pronti a novembre, al posto delle tende adibite a pre-triage e tamponi. La Protezione civile le sta smontando».