Il 10% degli impiegati pubblici, il 6% degli infermieri, addirittura un quinto del totale dei medici. E dove mancano ancora le proiezioni – professori, dirigenti scolastici e personale Ata – si teme che le percentuali siano ancora più alte. L’ipotesi «quota 100», ancora tutta da formalizzare, già spaventa sindacati e associazioni di categoria, che temono un fuggi fuggi di dipendenti e una conseguente paralisi dei servizi. Certo, allo stato attuale i conteggi possono risultare prematuri, ma già guardando ai possibili lavoratori compresi nella somma dei 62 anni di età e 38 di contributi è possibile avere un quadro della situazione. «Da sempre chiediamo una radicale riforma della legge Fornero, ma rivendichiamo anche un piano di assunzioni – ricorda Daniele Giordano, segretario Fp Cgil – dovrebbero già essere avviate le procedure per i concorsi, senza contare le necessità di formazione e affiancamento».
I dati della Cgil parlano di 2.400 lavoratori del comparto sanitario e 1.330 medici che potrebbero lasciare il posto, numeri allarmanti per un settore già piegato dal mancato turnover, dove le ferie vengono dimenticate e i turni dilatati. «Non dobbiamo dimenticare anche quasi 700 infermieri – rimarca Dario De Rossi, segretario Cisl –. Per loro abbiamo già presentato una richiesta unitaria: bisogna accelerare le procedure di assunzione, con migliaia di candidati non si può pensare di fare tutto all’ultimo minuto». Il problema della sanità, comunque, affonda le sue radici in un decennio di mancato ricambio generazionale, come sottolinea il presidente veneziano dell’ordine, Giovanni Leoni: «Un tempo i medici andavano in pensione a 58, 60 anni. Oggi sono ancora in corsia a 65, 67 anni, sempre a dividersi tra turni notturni e reperibilità. Eppure contiamo 15 mila giovani laureati non specializzati, fermi in un limbo». É quello che ribadisce anche Fabrizio Boron, presidente della commissione sanità a Palazzo Ferro Fini, che considera quota 100 un atto di «giustizia sociale»: «Dopo una vita di lavoro, è giusto che le persone possano riposarsi. Una possibile soluzione l’abbiamo già proposta: il ripristino delle specializzazioni in ambiente ospedaliero – i vecchi assistenti, per intenderci – per riuscire ad accelerare le assunzioni di nuovi medici».
Anche sul fronte del pubblico impiego si conterebbero almeno 3.300 possibili «fuggiaschi» in tutto il Veneto, ma è guardando ai grandi capoluoghi che le percentuali si fanno più allarmanti: nei Comuni di Verona e Venezia potrebbero scomparire fino al 12% dei dipendenti, in quello di Rovigo si arriva al 17%. Non stupisce, quindi, che qualche consiglio cittadino abbia già presentato interrogazioni in questo senso: a Venezia è stato il consigliere di maggioranza Matteo Senno, allarmato dal possibile esodo. In ambito scolastico, invece, mancano ancora i numeri, eppure il quadro è comunque chiaro: «L’età media degli insegnanti supera i 55 anni, e l’80% sono donne – spiega Marta Viotto, Cgil –. Potrebbe esserci una fuga massiccia, ma a bloccarla sarà la barriera economica: con stipendi come quelli dei professori, non è proprio possibile rinunciare a un quarto di pensione». È invece probabile che i lavoratori del trasporto pubblico – locale e non – saranno lasciati a margine: «I ferrovieri hanno il loro fondo, più conveniente per la pensione anticipata, mentre gli autoferrotramvieri, quando non hanno accordi specifici, ricadono nei lavori usuranti e possono andare in pensione a 61 anni», assicura Renzo Varagnolo, della Cgil.
Quota 100, infine, preoccupa anche i pensionati: «La Fornero andava abrogata con una piattaforma completa, non a forza di spot – dice Angiola Tiboni, dello Spi –. Questa sarebbe una soluzione parziale, che certo non aiuta i precari che faticano a raggiungere i 38 anni di contributi».
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