Alda Vanzan, dal Gazzettino. E se nel mitico mandorlato di Cologna Veneta si trovassero Pfas? Pfas è una sigla che sta per “sostanze perfluoroalchiliche” ed è conosciutissima dalle parti di Vicenza, Padova e pure Verona e Treviso. Perché sono veleni che una fabbrica di Trissino ha scaricato per decenni in superficie contaminando tutta la falda acquifera, con il risultato che mentre l’acqua potabile è stata messa in sicurezza grazie a una serie di filtri (costati almeno 2 milioni di euro, cifra che viene caricata sulle bollette dei cittadini), ancora non si sa se gli alimenti sono da considerarsi sani, e quindi commestibili, o piuttosto inquinanti e quindi nocivi e causa di tumori.
Meglio, alcuni dati ci sono e risalgono allo scorso novembre ed è proprio da quelle analisi che si potrebbe temere per il mandorlato, di cui uno degli ingredienti principe è l’albume: le uova prelevate a Cologna Veneta hanno dato infatti esito positivo, 21,2 microgrammi per chilo quando il Pfas non dovrebbe proprio esserci. Certo, meno del pesce di fiume prelevato a Creazzo nel fiume Cassacina (57,4) ma più del fagiano preso a Minerbe (2,4).
Tant’è, per capire se c’è pericolo o no, la Regione si è rivolta all’Iss, l’Istituto Superiore di Sanità. E cosa ha detto l’Istituto Superiore di Sanità? Che non ci sono elementi per affermare che gli alimenti sono inquinati. Ergo, bisognerà fare altre analisi. È di questo che si occuperà il “tavolo Pfas” convocato questa mattina a Palazzo Balbi, giusto in contemporanea con la seduta della giunta regionale. Ci saranno il direttore generale della Sanità Domenico Mantoan, il direttore dell’Ambiente nonché commissario dell’Arpav Alessandro Benassi, i colleghi dell’Igiene pubblica Francesca Russo, del Sistema epidemiologico Mario Saugo e dell’Agricoltura Andrea Comacchio. La riunione servirà per fare il punto della situazione e decidere quali azioni intraprendere.
Perché su questa vicenda che sta sempre più montando, i vertici politici della Regione Veneto – in primis il governatore Luca Zaia e l’assessore alla Sanità Luca Coletto – sono chiamati da più parti a rispondere. «Le autorità regionali hanno preso sottogamba la questione del più grande inquinamento dell’acqua e degli alimenti mai avvenuto prima in Veneto e ciò viene confermato dal silenzio del presidente Zaia e della sua giunta sulla vicenda», ha tuonato il consigliere regionale del Pd, Andrea Zanoni. Che ha chiesto di portare il fascicolo Pfas direttamente alla Procura della Repubblica.
Ma cosa ha e non ha fatto la Regione? Intanto va detto che la vicenda Pfas esplode tre anni fa, quando l’Arpav indica quale responsabile dell’inquinamento la ditta Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza. La Miteni – dal 2009 di proprietà della multinazionale tedesca Weyl- chem del gruppo International Chemical Investors (Icig) – è una delle tre fabbriche in tutta Europa – le altre due sono una in Portogallo l’altra in Germania – che producono Pfas per trattare pelli e tessuti (Goretex), rivestimenti di carta e cartone, fondi antiaderenti per le padelle (Teflon).
In Germania avevano messo dei limiti per lo sversamento di quelle sostanze nelle acque, in Italia no. In Italia i Pfas non sono previsti come inquinanti, in compenso l’ultimo Rapporto sui crimini agroalimentari evidenzia come il Veneto sia al primo posto per incidenza di tumori. Quando si è scoperto che la rete idrica di 79 comuni nel Vicentino non era più potabile, si è agito in due modi: mettendo dei costosissimi filtri agli acquedotti e imponendo da parte della Regione alla fabbrica di Trissino di adeguarsi ai parametri tedeschi.
E nel frattempo? La gente che ha bevuto l’acqua contaminata come sta? Adesso si possono mangiare uova, ortaggi, carni, pesci prodotti in quelle zone? La duplice risposta è: non si sa. L’esito del “biomonitoraggio sugli umani” – 400 persone sottoposte ad esami del sangue, con la Regione che ha pagato 350mila euro per il sistema messo in piedi dall’Iss – si avrà tra un mese e mezzo. Quanto agli alimenti, servono altri studi. E dopo? Tra le ipotesi c’è quella di abbandonare i pozzi utilizzati in agricoltura e costruire un nuovo acquedotto. Ma qualcuno dovrà dire chi paga.
Il Gazzettino – 8 marzo 2016