Le stime di esposizione alimentare presentate dalla Regione Veneto non sembrano giustificare completamente le concentrazioni ematiche osservate negli abitanti della zona rossa A e B in una misura realistica di circa il 40%, ad indicare che ancora rimangono non definite alcune fonti di esposizione. In questo, l’incrocio tra il parere Efsa 2018 e le risultanze alimentari è informativo per ridefinire una opera di prevenzione dell’esposizione a Pfas, allargata anche ai composti a corta catena, sempre più di rilevanza tossicologica ambientale e sanitaria, peraltro fatti oggetto di indagine negli alimenti, ma non riportati nella relazione. Dalla conoscenza del territorio e dalle problematiche già affrontate legate alla presenza di cromo nei corpi idrici superficiali, possono peraltro derivare utili spunti di attività per prevenire/ridurre il passaggio della contaminazione dei Pfas dall’ambiente all’alimento in un contesto territoriale caratterizzato da più di un hot spot e in forte cambiamento. (nelle immagini sotto mappa dei punti di captazione acque superficiali a scopo agricolo-zootecnico aggiornata al 2016 e prodotti tipici del Veneto)
Premessa
La divulgazione del rapporto valutativo dei dati di contaminazione da Pfas dal monitoraggio regolare dell’acqua potabile e da un piano straordinario sugli alimenti locali (questi ultimi campionati nell’arco di tre mesi nel 2017 in base ad un disegno elaborato da un apposito comitato tecnico-scientifico regionale e analizzati da Iss, IzsVe, e Arpav per i relativi settori di competenza), si viene a collocare temporalmente in una situazione in cui il dibattito sulla problematica Pfas in Veneto è particolarmente ampio. Un dibattito che riconosce i seguenti punti qualificanti:
- Le deposizioni presso la Commissione di inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti, del responsabile del Dipartimento Ambiente dell’Istituto Superiore di sanità, in cui si sono poste le attenzione: a) sulla necessità di ricondurre tutte le attività in essere sul territorio veneto nel quadro di uno studio epidemiologico sugli impatti sulla salute dei Pfas; b) sulla necessità di includere anche i composti a corta catena nella valutazione di rischio ambientale e sanitario, Pfas a catena corta che oggi sono fatti oggetto di attenzione tossicologica poiché condividono una stessa via di interferenza endocrina analogamente al Pfoa e al Pfos (vedi i pareri Istituto superiore di Salute e ambiente olandese – Rivm).
- Il database Arpav open access sulle contaminazioni da Pfas in acque superficiali e profonde, da cui risultano importanti fluttuazioni su base stagionale delle concentrazioni di Pfoa e di altri Pfas sia nei corpi idrici superficiali ad uso irriguo, che in falda, dove recentemente si è notato un peggioramento della contaminazione.
- L’attivazione da parte del Comitato delle mamme No Pfas di alcune iniziative e richieste specifiche, che si estendono anche ad una più puntuale verifica della contaminazione negli alimenti, vedi i risultati sui kiwi di Creazzo presentati in un opuscoletto consegnato ai principali gestori del rischio Pfas in Veneto.
- I bollettini regionali 2018 sul bio-monitoraggio nelle zone rosse A e B, in cui viene avanzata l’ipotesi che in alcuni contesti non sia la contaminazione della risorsa idropotabile, e non necessariamente l’acqua dei pozzi, la sorgente di esposizione umana che giustifica il 95% dell’esposizione alimentare. Questo, perché a distanza ormai di più di tre anni dalla effettiva implementazione del sistema di filtraggio delle acque potabili adottato dai vari Gestori della rete acquedottistica, filtraggio dimostratosi efficace nell’abbattere drasticamente le concentrazioni di Pfoa, non si sono avuti riscontri su un evidente calo nelle concentrazioni di Pfoa nel siero della popolazione esposta, considerando il suo tempo di dimezzamento stimato nell’intervallo dei 2,7-3,8 anni .
La valutazione dell’Istituto Superiore di sanità – gli aspetti innovativi
Il documento Iss non sembra rivestire ancora pieni criteri di ufficialità (non risulta una data e un numero di protocollo). Volendo interpretare questo particolare in maniera positiva, può essere un segnale che tale valutazione è aperta alla società civile per opportune considerazioni, da incorporare se ritenute valide nel documento finale.
Se fosse così, la Regione Veneto di fatto anticiperebbe in maniera innovativa quanto in essere nel nuovo Regolamento Europeo che riguarda il riordino di Efsa e delle procedure di valutazione del rischio sanitario e alimentare, Regolamento di cui questo sito si è già occupato e che verrà pubblicato nei primi giorni di settembre 2019.
In che modo le evidenze scientifiche portate dal piano di analisi degli alimenti campionati in un ristretto periodo del 2017, in un contesto di forti pressioni ed emergenziale per dare prime risposte alla cittadinanza, possono contribuire a capire la situazione sul territorio in chiave epidemiologica e soprattutto di medicina preventiva, in un quadro di One Health? (nella foto illustrazione preliminare dei risultati sugli alimenti nel novembre 2017 in Regione Veneto)
In questo, il punto di partenza più oggettivo per fare delle opportune considerazioni è rappresentato dai dati di biomonitoraggio umano. I dati di biomonitoraggio quando confrontati con i dati di monitoraggio e con l’identificazione delle sorgenti di esposizione, possono produrre le informazioni necessarie a supportare l’evidenza scientifica (e scientificamente difendibile) della correlazione fra esposizione e esiti sanitari, e forniscono gli strumenti necessari per indagare inquinanti emergenti e miscele complesse, e di utilizzare/valorizzare tutte le informazioni per supportare le politiche di prevenzione primaria ovverossia di riduzione dell’esposizione. Seguendo l’approccio alla base dell’opinione Efsa 2018 su PFOS e PFOA, è infatti opportuno verificare se la dose interna determinata nel depistaggio sierologico ad amplissimo coinvolgimento della popolazione residente nei comuni impattati dall’inquinamento di falda dei Pfas – nello specifico del Pfoa – trova opportuno riscontro nelle stime di esposizione alimentare – la cosiddetta dose esterna. Le evidenze dalla attività di biomonitoraggio umano come punto di partenza
L’opinione Efsa fissa una correlazione tra 9,2 ng/mL siero di Pfoa (dose interna) e una assunzione settimanale di 5,6 ng/kg peso corporeo di Pfoa con l’alimento. Da qui si può derivare che i livelli medi di contaminazione nel siero della popolazione adulta zona A rilevati dal biomonitoraggio di 75 ng/ml corrispondano ad una dose esterna (alimentare) di circa 45 ng/kg peso corporeo per settimana di Pfoa. Analogamente, per gli abitanti adulti della zona Rossa B, il valore di esposizione alimentare risulta di circa 30 ng/kg per settimana, interpolato dal dato ematico medio di 43,7 ng/ml di Pfoa.
La valutazione di esposizione alimentare pre-filtri in zona rossa A e B (scenario 2 e 5) presa in considerazione
La posizione ribadita dalla Regione anche nel comunicato di accompagnamento dell’opinione Iss è che sia stata l’esposizione alimentare, soprattutto attraverso l’acqua potabile, e soprattutto laddove attinta da pozzi ad avere determinato i livelli di Pfoa nel sangue riscontrati. Questo trova riscontro nelle valutazioni Iss, dove per gli scenari sopra considerati, il contributo dell’alimento solido all’intake di Pfoa non supera il 5% per la zona A.
Negli scenari disegnati dalla valutazione attribuita all’Iss relativi all’esposizione alimentare nel periodo pre-installazione dei filtri e consumo di alimento locale, le stime medie di assunzione alimentare negli adulti residenti nella zona A e B risultano rispettivamente di 31 ng/kg e 22 ng/kg per settimana. Mancherebbe all’appello un contributo dell’esposizione alimentare intorno al 31 % per la zona A, e del 25% per la zona B.
Se la modellistica Efsa 2018 basata sui dati tossicocinetici riferiti a gruppi di lavoratori professionalmente esposti a Pfas, tenesse conto della emivita media del Pfoa di 2,7 anni recentissimamente calcolata da ricercatori svedesi in una comunità di cittadini esposti esclusivamente tramite l’acqua del rubinetto contaminata dall’utilizzo di Pfas nel vicino aeroporto, la dose esterna mancante all’appello nello studio alimentare dell’ISS salirebbe al 50%.
Alcune domane da porci
In una ottica di prevenzione primaria, quindi i contributi rappresentati sulla valutazione dell’esposizione alimentare-dose esterna devono necessariamente porre il problema se tutte le sorgenti di esposizione e nel settore alimentare, tutti gli alimenti siano adeguatamente conosciuti e rappresentativi del territorio. In questo appare non sufficientemente cautelativo – in mancanza di dati sulla contaminazione locale dell’alimento – attingere al database delle contaminazioni Efsa, laddove i dati non siano specificamente riconducibili a situazioni di hot spot e/o selezionati in base agli alti percentili di contaminazione (vedi selvaggina). Un possibile contributo alla sottostima?
Il territorio è infatti caratterizzato da numerosi hot spot potenziali, che non necessariamente sono riconducibili allo stabilimento di produzione Pfas oggi dismesso. Le numerosissime fonti di pressione manifatturiera e le discariche presenti sul territorio, sono peraltro state recentemente evidenziate dal rapporto ISPRA-SNPA 2019 sugli approcci metodologici nel monitoraggio dei Pfas nei corpi idrici, rapporto già pubblicato su questo sito.
Le notevoli variazioni osservate nella concentrazione del Pfoa e altri Pfas nelle acque superficiali ad uso irriguo, durante le varie stagionalità e fatte oggetto di attente valutazioni da parte di Arpav nel 2019 per quanto riguarda la portata di Pfas dai corpi idrici veneti al mare Adriatico, confrontati con quelli del fiume Po, devono fare riflettere sulla probabilità di importanti fluttuazioni della contaminazione nelle derrate alimentari prodotte in loco. In periodi di scarsa portata, o di piene, la contaminazione dei PFAS nei corpi idrici superficiali può essere più elevata quale conseguenza di un minore effetto “diluizione” a parità di rilasci, oppure per la risospensione del sedimento, cui di solito i PFAS a media e lunga catena sono associati. L’uso irriguo in tali condizioni può essere un determinante di contaminazione alimentare.
Tali fluttuazioni “ambientali” legate alla produzione primaria sottolineano ancora la problematicità del disegno campionario e delle metodologie analitiche, già accennate nel precedente redazionale successivo alla prima divulgazione dei risultati sugli alimenti campionati, e oggetto di una valutazione definita tranquillizzante in quanto basata sui vecchi valori guida tossicologici di Pfos e Pfoa indicati da Efsa nel 2008, rivisti decisamente al ribasso nel 2018.
Gli ulteriori elementi di considerazione sono, ad esempio, per gli abitanti della zona rossa B le concentrazioni di Pfoa ematiche sono risultate più ridotte negli abitanti con pozzo privato rispetto a quelli senza pozzo, a differenza di quanto riscontrato nella zona A. Anche qui una semplificazione nell’affermare che l’acqua di pozzo è un principale fattore di esposizione non è corretta, laddove estesa generalmente: anzi nella zona B ha un ruolo di mitigazione, che trova peraltro adeguato riscontro nelle stime ISS.
Tutto questo aiuta a comprendere meglio la rilevanza del biomonitoraggio riferito al gruppo allevatori ed agricoltori, le cui concentrazioni ematiche sono risultate significativamente superiori rispetto a quelle monitorate nella popolazione residente più esposta. Tali concentrazioni risultano peraltro indipendenti dall’appartenenza alla zona A e B, a significare che il fattore acqua e acqua di pozzo potrebbe non essere così discriminante.
Appare quindi opportuno approfondire il caso più grave (worst case). Per i 59 allevatori della ex Ulss 5 si parla di valori medi di 194 ng/ml di Pfoa nel siero. Tradotto in dose esterna secondo Efsa 2018, una esposizione alimentare media di 120 ng/kg per settimana. Confrontando questo dato con l’ipotesi peggiore disegnata dall’Iss (Scenario 6, Zona A, adulti, consumo di acqua pretrattamento e alimenti locali al 95° Percentile), per una esposizione alimentare stimata di 9,6 ng/kg giorno di Pfoa – corrispondente ad una assunzione di 67 ng/kg su base settimanale), si osserva una sottovalutazione del 44%. Tale sottovalutazione risulta ancora più pronunciata se al posto dei dati relativi all’acqua pre-trattamento per la zona A si considerano i dati dell’acqua di pozzo 2018 – zona A e alimenti locali: in tale scenario si arriva oltre il 70% di sottostima. Ovverossia, il contributo alimentare stimato da Iss nel caso peggiore giustifica solo il 30% della concentrazione ematica rilevata di Pfoa in tale gruppo di allevatori.
Questo ad evidenziare maggiormente che i database su cui si è basata la stima di esposizione alimentare non possono considerarsi sufficientemente rappresentativi delle reali situazioni in campo laddove il risultato del biomonitoraggio è il punto di partenza di elezione per stime di esposizione.
Il problema concettuale è che nella valutazione di esposizioni alimentari in contesti hotspot l’approccio classico riferito a studi sulla popolazione generale, utilizzato da Iss e basato sulla elaborazione di consumi e contaminazioni non è adeguato: questo perché i dati sono in gran parte decontestualizzati dalla singola persona/nucleo familiare/azienda. Il punto appare dirimente, soprattutto in un contesto di studio di biomonitoraggio in cui il risultato della analisi sul sangue viene restituito al singolo, unitamente ad altri parametri bio-chimico clinici.
Mancano ancora all’appello i Pfas a corta catena
Non da ultimo, nella valutazione ISS non sono riportate le stime di esposizione ai Pfas a corta catena, ormai caratterizzati tossicologicamente e progressivamente oggetto di valutazioni restrittive quantomeno in campo ambientale e delle acque potabili, come peraltro asserito dallo stesso Iss in sede di Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti. Iss e Regione Veneto si erano peraltro impegnati a divulgare i dati sulla presenza dei “corta catena” nel rapporto definitivo, in sede di conferenza stampa nella presentazione dei dati preliminari, ormai più di un anno fa. Peraltro, le valutazioni sui Pfas a corta catena e/o polari – compreso il Gen X, dotati di una notevole mobilità tra il comparto ambientale e alimentare, anche se non bio-accumulano, sono all’ordine del giorno di numerose Agenzie nazionali nell’ambito di una tossicità associata basata su fattori di risposta relativa. E anche Efsa si è impegnata a rilasciare una opinione in merito a fine 2019 – inizio 2020. Chi non è in anticipo è in ritardo.
Per un monitoraggio ambientale/alimentare in contesto di hot spot caratterizzato da più fonti di pressione puntuali e occasionali
Alla luce di quanto espresso in premessa, appare quantomeno opportuno riconsiderare il piano di campionamento alimentare sulla base dell’approccio Efsa 2018 che parte da evidenze epidemiologiche e di biomonitoraggio, tenendo adeguatamente conto la complessità del territorio, e partendo appunto dai casi eclatanti (allevatori) nello spirito della massima prevenzione sanitaria, ponendo il cittadino al centro e parte attiva.
In tale contesto appare di minore cogenza e prioritariamente meno rilevante proporre il campionamento di matrici alimentari non appartenenti ai contesti propri dell’hot spot, se prima non si sia compreso il motivo di discrepanza tra la dose interna (concentrazione ematica) e stima di dose esterna acquisita tramite il campionamento e l’analisi degli alimenti locali, unitamente alle abitudini alimentari dei singoli nuclei familiari.
In questo, la valutazione dell’effettivo e manifesto calo delle concentrazioni ematiche di Pfoa nella popolazione esposta, alla luce dei tempi di dimezzamento considerati dalle Agenzie di valutazione del Rischio nell’intervallo di 2,7–3,8 anni, e della implementazione acquisita del sistema di filtraggio acqua potabile, databile inizio 2017, devono essere poste al centro della valutazione di efficacia delle misure di prevenzione primaria adottate.
L’altro aspetto qualificante è che le modifiche intervenute nell’ambiente, nelle pratiche agricole, e nelle abitudini alimentari nella popolazione residente nei comuni impattati, ha di sicuro determinato una perturbazione, un cambiamento dello scenario di contaminazione ed esposizione.
In questo, il campionamento alimenti 2017 probabilmente non basta a definire il cosiddetto punto di partenza “0” della contaminazione alimentare. Può essere utile in questo senso una strategia di campionamento adeguata alla complessità e alla caratterizzazione approfondita delle sorgenti di rilascio ambientale. Questo deficit di conoscenza potrebbe non rendere adeguato merito ad esempio alle pratiche che già i produttori agricoli e allevatori hanno messo in atto volontariamente per rendere la produzione alimentare più resiliente alla contaminazione ambientale da Pfsa, e alla valutazione della loro efficacia. Potrebbe mancare quindi il punto di partenza con cui confrontarsi.
I Pfas più mobili tra comparto ambientale e alimentare del cromo: uno sguardo al passato per la prevenzione alimentare primaria futura.
Uno spunto per gli opportuni approfondimenti in materia di esposizione alimentare può venire dalle linee guida per il risanamento e la riqualificazione del Fiume Fratta Gorzone del 2009, pubblicate dal Consorzio LEB, rapporto che tra l’altro considera la contaminazione del cromo rilasciato nei corpi idrici principalmente da parte del settore tessile conciario e il suo impatto sull’agricoltura. Di particolare interesse le misure di mitigazione atte a ridurre la contaminazione dei terreni anche agricoli, e delle derrate ivi prodotte. Il cromo, tuttavia, è dotato di una mobilità acqua/suolo/pianta assolutamente inferiore rispetto a quella dei Pfas a corta catena, e in misura minore a quella del Pfoa. In tali linee guida, è presente un dettagliato elenco delle Atlante dei prodotti tradizionali agroalimentari del Veneto (vedi tabelle sotto) ad alto valore aggiunto potenzialmente impattati dalla pressione ambientale sul Fratta Gorzone e quindi da proteggere. (nell’immagine sopra evoluzione dell’attenzionamento ambientale, sanitario e regolamentare ai PFAS a livello internazionale)
Sulla capacità di campionamento, valutazione e gestione della contaminazione da Pfas nelle filiere alimentari – unitamente alla risorsa ittica e alla selvaggina – ad alto valore aggiunto si gioca la credibilità della sanità pubblica veterinaria in termini di medicina preventiva, anche al fine di dirimere il 40% di contributo all’esposizione mancante all’appello nella popolazione locale. In sintesi: non solo Miteni e non solo acqua idropotabile. Data la presenza di numerosissime attività manifatturiere che utilizzano Pfas nei processi produttivi, può esistere una componente di esposizione lavorativa non sufficientemente valutata? Il dato inequivocabile del biomonitoraggio di allevatori e agricoltori non porta a considerarla di impatto.
(riproduzione ammessa solo citando la fonte – testo raccolto a cura della redazione)