L’IMPEGNO Il ministro Giannini si scaglia contro questo «spreco che non possiamo permetterci» e promette di trovare più fondi per le borse di studio
Come gli acquedotti di tante parti del nostro Paese, l’università italiana è un sistema che disperde una larga parte delle proprie risorse. Tra crollo delle iscrizioni (-20% in 10 anni), boom di abbandoni (il 40% degli iscritti) e lauree brevi triennali che durano quasi il doppio (in media 5,1 anni), alla fine i laureati italiani restano pochi. Il luogo comune sui troppi “dottori” è infatti smentito dal confronto con l’Europa. Nonostante siano aumentati negli ultimi anni (22,3% dei 25-34enni nel 2012, contro il 7,1% del 1993), la media Ue del 35% è ancora lontanissina.
A scattare la fotografia è l’Anvur (Agenzia che valuta atenei ed enti di ricerca), che ieri a Roma ha presentato il primo rapporto sullo stato del sistema universitario. Mettendo in fila numeri e «patologie» – così le ha definite il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini che ha parlato di «spreco che non ci possiamo permettere» – di un sistema universitario che, dal 2009 a oggi, ha subito comunque tagli per oltre 1 miliardo di euro. Una sforbiciata che «preoccupa» anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dal momento che le risorse sempre più con il contagocce «si attestano su valori molto inferiori alle medie europee e dei paesi Ocse, a fronte – spiega nel messaggio inviato ieri – di una qualità dei risultati che è segno di potenzialità da sostenere e valorizzare». In rapporto ai Paesi Ocse, l’Italia spende infatti per l’università il 30% in meno. Da qui l’impegno del ministro Giannini che ha promesso di aumentare le risorse per le borse di studio oltre a fare pressing sul premier Renzi per lanciare un piano decennale per la ricerca.
Il fatto grave, è che le «risorse disperse» dall’università italiana sono gli studenti, e quindi le future professionalità che allungano i tempi d’ingresso nel mondo del lavoro e spesso non “compensano” questo ritardo con una formazione completa e un titolo spendibile. Qualche numero, fra i tanti messi in fila dagli esperti dell’Agenzia (15 persone in organico, e compiti sempre più ampi), basta a mostrare l’entità del problema: nel Regno Unito, in Spagna e in Germania arriva alla laurea il 75-79% di chi si iscrive all’università, nei Paesi Ocse il tasso di successo medio è del 70%, mentre in Italia ogni 100 immatricolati solo 55 arrivano a discutere la tesi. Un primo gruppo, il 15% del totale, abbandona entro il primo anno, altrettanti immatricolati cambiano corso nei primi dodici mesi, mentre uno studente su tre si mantiene fedele all’iscrizione ma si rivela completamente inattivo sul piano accademico. Risultato: anche chi arriva al sospirato titolo impiega tempi lunghi, al punto che per la laurea triennale si impiegano in media oltre cinque anni, cioè quel che in teoria servirebbe a ottenere la «magistrale» (invece degli oltre sette anni reali). Dietro a ogni media, è naturale, si nascondono casi ancora più eclatanti come mostra il fatto che nel 2011, cioè undici anni dopo il debutto effettivo del «3+2», 16.714 persone si sono laureate secondo il vecchio ordinamento.
Dati così evidenti non possono certo essere attribuiti ad attitudini nazionali o generazionali, tanto più se riferiti ai problemi di sistema che la riforma di fine 1999 (il «3+2», appunto) ha tentato senza troppo successo di cancellare. Anche per questa ragione, l’Agenzia non si limita ai numeri ma individua anche le possibili cause del problema: inefficienza dell’orientamento, deficit di preparazione degli studenti e debolezza del tutoraggio concorrono in varia misura ad azzoppare le performance universitarie. Un “successo” del «3+2» può invece essere individuato nel fatto che gli studenti considerano la laurea triennale un passaggio autonomo, e non un semplice antipasto della magistrale: lo dimostra il fatto che solo il 47,4% dei laureati di primo livello si iscrive immediatamente al corso successivo, e che la mobilità fra atenei è elevata.
I problemi di fondo sono tanto più gravi in un Paese che continua ad avere una presenza di laureati assai più leggera della media. Solo il 22,3% degli italiani fra 25 e 34 anni ha una laurea in tasca, contro il 29% della Germania, il 35% abbondante della media Ue e il 45% del Regno Unito, e da noi manca un’istruzione terziaria “professionalizzante”, cioè una terza via fra la laurea classica e il lavoro dopo il diploma, che in Europa è invece molto sviluppata. Nemmeno da questo punto di vista, senza un cambio di rotta le prospettive sono incoraggianti: oggi sono quasi scomparsi (-76% fra 2003/2004 e 2012/2013) gli immatricolati con almeno 23 anni di età, soprattutto per il tramonto del riconoscimento dei crediti per le «esperienze professionali», ma un calo in termini assoluti c’è stato anche fra gli under 22 (meno 7,6%).
Il Sole 24 Ore – 19 marzo 2014