Mentre Matteo Renzi pensa di ricostruire l’Italia dalla scuola, qualcun altro vuol finire di distruggerla all’università. Una pioggia di ricorsi amministrativi s’è abbattuta sull’ultimo concorso per l’Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l’assunzione in ruolo.
È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei.
Nell’ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti “bibliometrici”, forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè monografie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari.
La pietra dello scandalo che ha consentito di modificare l’ordine di merito si chiama “sottosettorialità”. E già il termine, criptico e ambiguo, la dice lunga sulla sua pericolosità. Questo parametro variabile ha consentito alle commissioni di stabilire arbitrariamente quali lavori possono essere considerati “sottosettoriali”, e quindi di minor rilevanza o interesse, per correggere in negativo il giudizio sull’idoneità di questo o di quell’aspirante professore.
Fatto sta che molti candidati bocciati avevano ottenuto valori più alti di quelli promossi: per alcune discipline, la discriminazione ha toccato addirittura il 75%. E contemporaneamente è riemerso anche un vizio antico del nostro mondo accademico: i figli dei “baroni”, vale a dire dei cattedratici più anziani e autorevoli, sono risultati tutti idonei indipendentemente dal livello della loro produzione scientifica. Dall’illusione della meritocrazia, l’università italiana è ripiombata così nella realtà della parentopoli più abusata e brutale.
Il caso più clamoroso è quello di Medicina e in particolare di Ortopedia con oltre cento candidati. Nel settore disciplinare delle “Malattie dell’apparato locomotore”, denominato 06 F4, i cosiddetti sottosettori sono stati variamente interpretati come distretti anatomici (spalla, gomito, anca, ginocchio, caviglia ecc. ecc.) oppure come ambito di ricerca (scienza di base, traumatologia, oncologia, traumatologia sportiva, patologia degenerativa, ortopedia pediatrica eccetera). Così il concorso per titoli s’è trasformato in una sorta di lotteria che, secondo un’analisi statistica dei risultati, ha premiato gli autori di pubblicazioni che avevano un valore medio di gran lunga inferiore a quello di diversi candidati giudicati “non idonei”.
Nel sito del ministero, con un po’ di pazienza si possono verificare i titoli di ciascun candidato. Vi sono storie professionali di medici noti e affermati: uno nella chirurgia della spalla o del ginocchio e l’altro nel trattamento delle lesioni delle cartilagini, sono stati valutati negativamente dalla commissione proprio a causa di quella “sottosettorialità”, ovvero specializzazione, che ha permesso loro di eccellere in un determinato campo di ricerca.
A citare qualche nome, a titolo di esempio, è un illustre cattedratico come il professor Andrea Ferretti, primario all’ospedale Sant’Andrea di Roma e già medico della Nazionale di calcio: Alessandro Castagna di Milano (spalla); Stefano Zaffagnini (ginocchio) ed Elisabetta Kon (cartilagini), entrambi di Bologna. “Quest’ultima – dice Ferretti – è una vera scienziata, un’autorità in campo internazionale. Ma tengo a precisare che nessuno dei tre fa parte della mia scuola”. E aggiunge: “A parte la Medicina e il nostro settore, questo concorso non fa onore all’intera università italiana”.
I ricorsi presentati alla giustizia amministrativa puntano in genere sulla tesi che quello della “sottosettorialità” può anche essere un criterio complementare, ma non l’unico per valutare la produzione scientifica di un candidato. I commissari, inoltre, avrebbero dovuto specificare preliminarmente come sarebbe stato interpretato e applicato, per mettere i candidati in condizione di integrare o eventualmente ritirare la domanda. A ogni modo, qualunque sia stato il parametro di valutazione, i ricorrenti sostengono che nel complesso “non sono stati espressi giudizi uniformi”.
Per paradosso, insomma, in un concorso del genere anche un Premio Nobel avrebbe rischiato di essere respinto. E a partire dall’Ortopedia, è proprio il caso di dire che ancora una volta l’università ne escecon le ossa rotte.
Repubblica – 2 marzo 2014