Era ora. Il Veneto della piccola e media impresa ma anche del «pubblico che funziona» reagisce così alla rivoluzione in materia di malattia e visite fiscali annunciata dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, e che uniformerà a 7 ore la reperibilità per i controlli, affidandoli tutti allo stesso Istituto di previdenza. La riforma sarà inserita a fine mese nel decreto Madia: oggi infatti le fasce di reperibilità prevedono 4 ore giornaliere per i lavoratori privati (10/12 e 17/19), su cui vigila l’Inps, e 7 ore (9/13 e 15/18) per i dipendenti pubblici.
Tenuti sotto sorveglianza da più enti: le Usl, il ministero della Difesa se si tratta di soldati, carabinieri o finanzieri, il ministero dell’Istruzione se parliamo di insegnanti e così via. Tanti «padroni» per pochi medici fiscali: nel Veneto appena una cinquantina, che nel 2015 (ultimi dati Inps disponibili) hanno eseguito 8474 visite su un totale di circa 800mila certificati di malattia riguardanti il privato (altri 298.400 quelli emessi nel pubblico). Più o meno un accertamento ogni cento malati.
«Da tempo invochiamo il riordino del settore — rivela Lucia Zanardi, responsabile medico all’Inps di Padova — noi per esempio disponiamo di 8 dottori per una provincia di 800mila abitanti. Lo stesso numero è a disposizione di Treviso e Venezia; Verona e Vicenza ne hanno una dozzina ciascuna, Rovigo e Belluno uno o due a testa. Sono liberi professionisti a contratto, che per il 90% del tempo lavorano per noi ma che non possono far fronte alla richiesta. Ognuno di loro svolge tre visite la mattina e tre al pomeriggio, secondo le indicazioni del terminale centrale del ministero del Lavoro, al quale confluiscono i certificati di malattia e che smista i controlli tenendo conto della residenza del camice bianco e della forza lavoro totale. Perciò si riesce a soddisfare la domanda. Poi però ci sono le richieste inoltrate dai datori di lavoro che hanno sospetti sulle reali condizioni di salute del dipendente — aggiunge la dottoressa — e quindi chiedono un accertamento in data e ora precise. A questi controlli, pagati da chi li richiede 50 euro l’uno, si dà la precedenza, ma comunque non si arriva mai a smaltirli tutti. La riforma potenzierebbe il personale medico dell’Inps, ora limitato a 1300 unità in Italia». Già adesso realtà pubbliche, come Comuni e scuole, cominciano a chiedere le visite fiscali all’Istituto di previdenza, perché le Usl non ce la fanno a sopportare anche questo carico.
«Ogni azienda sanitaria si organizza in base alle proprie risorse — spiega la dottoressa Ivana Simoncello, direttore del Dipartimento di Prevenzione dell’Usl 6 Euganea, la più grande del Veneto — noi ne abbiamo uno a contratto per l’intera provincia ma ce ne vorrebbero 3-4 a tempo pieno. Non possiamo ricorrere agli interni, bastano appena per le attività di routine. Ci sono Usl che invece impiegano gli strutturati e altre costrette, per ristrettezze di budget, a rinunciare a tale attività. In effetti comporta un costo non indifferente». L’alternativa sarebbe chiudere gli ambulatori per dirottarne i dottori a onorare le visite fiscali. E comunque senza grandi risultati, visto che almeno negli ultimi dieci anni, a memoria degli addetti ai lavori, grosse sanzioni non ne sono state elevate. Cosa succede infatti se un «malato» non si fa trovare a casa? L’obbligo di reperibilità inizia il primo giorno della malattia e prosegue per tutto il periodo indicato sul certificato medico, inclusi sabato, domenica e festività, come Natale, Capodanno, Pasqua, Epifania. Se l’assenza è giustificata, nel senso che l’interessato è uscito per sottoporsi a una visita specialistica, basterà presentare il referto il giorno successivo all’Inps e affrontare lì il controllo previsto.
Se invece si tratta di assenza ingiustificata, la prima volta vengono detratti dalla busta paga fino a 10 giorni di retribuzione (quelli della malattia); la seconda volta fino a 20 giorni; in seguito non verrà più concessa la malattia per la patologia invocata nel caso in oggetto. Se poi uno continua a stare a casa senza giustificazione, l’Inps non gli pagherà la malattia e il lavoratore potrà essere licenziato. «Ma, almeno dal 2010, non è mai successo — assicura Zanardi —. Un tempo trovavamo molti assenti, sempre però giustificati anche se inconsapevoli delle fasce di reperibilità, oggi molto meno. Ne vediamo comunque di tutti i colori. Per esempio c’è chi sfrutta la malattia per svolgere un secondo lavoro: ricordo un dipendente pubblico di giorno che di notte faceva il buttafuori in discoteca. Da quando è iniziata la crisi incappiamo poi in aziende che si mettono d’accordo con i dipendenti perché dichiarino un certo periodo di malattia, così paga l’Inps e non loro».
«C’è un altro problema — chiude Simoncello — come fa il medico fiscale a sapere che davvero un paziente è afflitto da patologie non evidenti, come il mal di testa o gli attacchi di panico? Finisce che nel 99% dei casi il dottore non può che confermare il malanno denunciato».
Michela Nicolussi Moro – Il Corriere del Veneto – 11 febbraio 2017