La seconda ondata che stiamo vivendo in Europa e in altri Paesi potrebbe essere stata innescata da un ceppo di coronavirus più contagioso, a causa di una mutazione (chiamata D614G) rilevata sulla proteina S. La mutazione è presente nel 99,9% dei positivi di Houston; durante la prima ondata aveva una prevalenza del 71%.
Analizzando le sequenze genetiche di campioni virali ottenuti da oltre 5mila pazienti con COVID-19, l’infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, è stato dimostrato che il patogeno emerso in Cina continua a mutare costantemente, e che una delle mutazioni rilevate potrebbe averlo reso più infettivo e trasmissibile di prima. Nello specifico, si tratta della famigerata mutazione “D614G” scoperta in primavera da un team di ricerca internazionale guidato da scienziati americani del Dipartimento di Biologia Teorica e Biofisica del Laboratorio Nazionale di Los Alamos. Già allora si pensava che potesse rappresentare un catalizzatore per la trasmissibilità.
A determinare che questa mutazione potrebbe aver reso il coronavirus SARS-CoV-2 più contagioso è stato un gruppo di studiosi dell’Università del Texas ad Austin, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Patologia e Medicina Genomica presso lo Houston Methodist Research Institute, del Consortium for Advanced Science and Engineering dell’Università di Chicago e di altri istituti statunitensi. Gli scienziati, coordinati dai professori Ilya J. Finkelstein e James M. Musser, sono giunti alle loro conclusioni dopo essersi concentrati sulle sequenze genomiche di pazienti positivi nell’area metropolitana di Houston, dove vivono ben 7 milioni di cittadini.
Dall’analisi dei campioni di pazienti colpiti durante la prima ondata è stato determinato che la mutazione D614G era presente nel 71 percento dei casi, dunque già allora era quella dominante. Ma durante la seconda ondata estiva, come emerso dal sequenziamento genomico, la prevalenza è arrivata al 99,9 percento. In pratica, la totalità dei cittadini di Houston contagiati dal SARS-CoV-2 (se si eccettua una piccolissima frazione) è portatrice della mutazione D614G. Essa risiede sulla proteina S o Spike del patogeno, quella che sfrutta per legarsi al recettore ACE-2 delle cellule umane, scardinare la parete cellulare, riversare il materiale genetico all’interno e avviare il processo di replicazione, che determina l’infezione (COVID-19). Proprio la posizione cruciale della mutazione spiegherebbe la ragione del suo “successo”. Del resto, secondo lo studio britannico “Evaluating the effects of SARS-CoV-2 Spike mutation D614G on transmissibility and pathogenicity”, i virus dotati di questa mutazione avrebbero una maggiore capacità di trasmissione.
Tuttavia, non tutti gli scienziati concordano con questa analisi. Secondo alcuni il ceppo con la mutazione D614G si sarebbe avvantaggiato sugli altri semplicemente perché è stato il primo ad approdare in Europa e negli Stati Uniti, diffondendosi così in una vasta fetta della popolazione e prendendosi l’intero “palcoscenico”. Gli autori del nuovo studio hanno osservato 285 diverse mutazioni nelle migliaia di sequenze che hanno analizzato, ma nella stragrande maggioranza dei casi non sembravano associate alla gravità della malattia, inoltre non dovrebbero in alcun modo inficiare la bontà dei vaccini in arrivo. Solo una rara mutazione sarebbe in grado di mettere fuori gioco un anticorpo neutralizzante prodotto dal nostro organismo, ma tutte queste osservazioni dovranno essere confermate da ulteriori analisi. I dettagli della ricerca “Molecular Architecture of Early Dissemination and Massive Second Wave of the SARS-CoV-2 Virus in a Major Metropolitan Area” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Mbio.
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