Ormai le varianti del SARS-CoV-2 che hanno attecchito cominciano ad essere un bel po’, tanto da guadagnarsi il proprio nome. Sì, ma quale? “Variante inglese” “variante brasiliana” “variante sudafricana”. L’uso di queste diciture sembra ormai essersi consolidato. Giova a questo proposito ricordare che la lingua, non solo quella italiana, è democratica: i regimi dittatoriali hanno spesso provato a imporre dall’alto l’uso di determinate parole (per esempio il fascismo, che ha tentato di cancellare tutti i forestierismi al punto di imporre l’infelice sostituzione di “bar” con “bara”), ma nella maggior parte dei casi senza successo. La premessa è necessaria: anche se il 12 gennaio si è svolta una riunione dell’OMS con all’ordine del giorno la ricerca di un criterio per la nomenclatura delle varianti, e anche se è stata proposta, in linea con le indicazioni della stessa OMS, una classificazione alfanumerica, ormai la stampa e i cittadini continueranno molto probabilmente ad utilizzare il criterio geografico, che ha una grandissima criticità: potrebbe portare all’individuazione, arbitraria, di categorie di persone assimilabili a untori, e a quel punto lo stigma sarebbe un rischio concreto (ed è proprio ciò che l’OMS vorrebbe scongiurare, assieme alla confusione generata dai nomi diversi che vengono dati alla stessa variante). Sarebbe inoltre possibile che, per evitare questo stigma, alcuni paesi vengano scoraggiati dal segnalare la scoperta di nuove malattie, con un ingente danno per tutte le buone pratiche di sorveglianza.
Ma, come abbiamo visto, imporre dei nomi più generici potrebbe non essere una strategia vincente, perché la tendenza generale è appunto quella di utilizzare un criterio geografico per dare un nome alle varianti. Ne abbiamo parlato con Daniel Fiacchini – Dirigente Medico del Dipartimento di Prevenzione Asur AV2 ed esperto di comunicazione del rischio sanitario, perché volevamo capire meglio come mai, nonostante le indicazioni dell’OMS vadano nella direzione opposta, la stampa e i cittadini tendano ad usare spesso una classificazione geografica per i virus (non solo nel caso del SARS-CoV-2). “Ho la sensazione – dice Fiacchini – che certe scorciatoie e semplificazioni derivino dalla recondita necessità umana di localizzare un problema e in alcuni casi di pensarlo come geograficamente distante, un problema di altri. O forse la scelta degli appellativi geografici è, più semplicemente, una scelta di comodo: cosa c’è di più immediato, ma anche mnemonicamente fruibile, che attribuire a una variante il nome del paese in cui per la prima volta è stata identificata? Eppure questo genera stigma, e sin dall’inizio della pandemia di covid-19 l’OMS ha cercato di evitare che ciò accadesse, senza successo a quanto pare”.
“Ho la sensazione che certe scorciatoie e semplificazioni derivino dalla recondita necessità umana di localizzare un problema, in alcuni casi di pensarlo come geograficamente distante Daniel Fiacchini
Idealmente, infatti, bisognerebbe trovare un altro criterio altrettanto semplice, ma come possiamo pensare che le persone ricordino stringhe di lettere e numeri quando fanno fatica anche con il proprio codice fiscale? La combinazione di lettere e numeri per indicare le varianti è insomma sicuramente più neutra, ma anche più difficile da far passare nell’uso comune. “Il contrasto nell’attuale nomenclatura – spiega Fiacchini – è stridente: da un lato c’è il nome giornalistico della variante, collegato al luogo di prima identificazione del virus, tanto semplice quanto scorretto; dall’altro lato ci sono le combinazioni di lettere e numeri, che non hanno nulla di immediato e neanche un po’ di appeal dal punto di vista comunicativo: la variante “danese” è stata denominata “Cluster 5”, dal nome del focolaio generato da questa variante, la variante “sudafricana” è stata denominata “501Y.V2” per via della mutazione “N501Y” che la caratterizza, la variante inglese è stata denominata SARS-CoV-2 VOC 202012/01 – Variante di interesse numero 1 (01), del mese di dicembre (12), dell’anno 2020.
Trovo personalmente intrigante l’uso dell’acronimo VOC (Variants of concern), immediato, facile da ricordare, a cui però deve necessariamente essere associato un numero identificativo e per questo motivo il nome della variante va a complicarsi.
A quanto è dato sapere l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta lavorando a un sistema concordato a livello internazionale per la denominazione delle varianti. Qualcuno propone che vengano utilizzati nomi memorabili, esattamente come si fa con gli uragani e i cicloni, ma a quanto ne so alle perturbazioni vengono assegnati specifici nomi anche sulla base dell’impatto che avranno sul clima, dunque è normale che un anticiclone africano potenzialmente responsabile di un’ondata di calore venga denominato “Caronte”. Il problema con le varianti del Covid-19 sta nella variabile “tempo”: occorre tempo per studiare le caratteristiche di una nuova variante, capire se le mutazioni che la caratterizzano siano in grado di rendere il virus più capace di diffondersi, di essere più contagioso o di essere più dannoso dal punto di vista del decorso clinico, delle ospedalizzazioni e dei decessi. Ma questi non sono tempi compatibili con quelli della comunicazione e dell’informazione giornalistica”.
Comunque non è un problema che si presenta oggi per la prima volta. In passato gli allevatori si sono lamentati perché la stampa ha associato alla malattia il nome dell’animale che la portava: “La storia anche recente – conferma Fiacchini – ci ha insegnato che un altro errore grave, dopo quello di collegare virus e malattie infettive a specifiche città, paesi o regioni del mondo, è quello di qualificare un virus secondo la presunta provenienza animale. Ricordo ancora il drammatico crollo del mercato delle carni avicole, nei mesi a cavallo tra il 2005 e il 2006 per l’ondata di paura, tutta mediatica, che imperversò in Italia per la potenziale diffusione dell’influenza “aviaria”, causata da un virus influenzale di tipo A/H5N1. Da quella esperienza ai giorni nostri si è fatta una particolare attenzione agli aspetti della comunicazione e a evitare di “mettere in mezzo” gli animali quando il virus trova una sostenuta diffusione tra gli uomini“.
Come sempre, insomma, la scelta delle parole influenza la percezione della realtà. Se si riuscirà a trovare un compromesso tra semplicità e neutralità nella nomenclatura di virus e malattie lo vedremo con il tempo, ma nel mentre non possiamo che augurarcelo: la prossima volta potrebbe toccare a noi l’etichetta di untori.
fonte Il Bo live UniPd.