L’errore L’idea di fissare un limite inferiore (sia 3mila euro o più) e di applicare tagli solo alle pensioni oltre la soglia è errore logico che diventa vizio giuridico
di Ruggero Paladini e Vincenzo Visco. La legge di stabilità prevede la sospensione della indicizzazione delle pensioni superiori a 3mila euro, vale a dire un taglio a una parte delle pensioni in essere. Da più parti si parla e si propone di ridurre le pensioni erogate superiori a un certo limite (3.000€?) considerate in ogni caso pensioni d’oro. Le reazioni alla proposta sono state sorprendentemente blande, anche se è basata su una confusione evidente tra alto rendimento (dei contributi versati) e alto livello della pensione. Spesso i due aspetti sono disgiunti.
I sistemi retributivi e contributivi sono due sistemi a ripartizione. Nel sistema retributivo l’obiettivo non è quello di assicurare un uguale tasso di rendimento a tutti i lavoratori, ma di stabilire una relazione tra prima pensione e ultime retribuzioni. Il sistema permette trasferimenti di risorse a fini equitativi. Chi beneficia di questi trasferimenti avrà un rendimento più alto rispetto a chi cede parte delle risorse. Se la media del sistema ha un rendimento dei contributi effettivamente versati pari al tasso di crescita del Pil (o meglio della massa salariale) il sistema è in equilibrio (a parte eventuali fluttuazioni demografiche).
Quello che è successo da noi è stato il fatto che la distanza tra il rendimento medio è la crescita economica è diventata, in particolare a partire dagli anni 80, sempre maggiore, determinando la prospettiva di un crescente peso della spesa pensionistica. Rendimenti alti potevano essere ottenuti sia da operai con carriera piatta, ma che potevano andare in pensione a 50 anni, sia da dirigenti che ottenevano grandi aumenti retributivi negli ultimi anni prima del pensionamento (analogo discorso dal 1990 per gli autonomi). Ma la differenza è che la pensione dell’operaio 50enne era bassa, mentre quella del dirigente 60enne era alta.
Si può costruire qualche esempio a titolo illustrativo. Si supponga un operaio che inizi con una remunerazione pari al 60% di quella media (100), con una crescita media lenta di 1,5% (senza inflazione) per 35 anni. Il calcolo della pensione retributiva avviene sulla media degli ultimi dieci anni. La pensione, tenendo conto del fatto che i lavoratori pagano il 9% di contributi, sarà pari a 63,41; nel caso di pensione calcolata col metodo contributivo, ipotizzando 23 anni di vita attesa, sarebbe di 39,7, cioè il 63% di quella retributiva. Nel caso di 40 anni lavorativi (vita attesa 18 anni), la pensione retributiva è pari a 78,1, mentre quella contributiva a 72,4, che costituisce il 93%.
Nel caso di un impiegato con remunerazione iniziale media, con carriera rapida (2,5%) con 35 anni abbiamo la pensione retributiva a 147,5, mentre col contributivo avrebbe 87,6, cioè il 59%. Con 40 anni di lavoro abbiamo 190,7 col retributivo e 164,8 col contributivo (differenza di 86%).
Nel caso di magistrati o professori universitari, che hanno un pensionamento tra 70 e 75 anni, iniziando con una remunerazione di un terzo superiore a quella media, supponendo 45 anni di attività lavorativa, abbiamo 323,7 col retributivo, ma 560,4 col contributivo, ipotizzando 8 anni di vita attesa (il 173% della pensione retributiva). In questo caso cioè il contributivo sarebbe nettamente più alto del retributivo.
Gli esempi danno idea del problema; si può notare che l’elemento che ha il maggior peso nella differenza tra retributivo e contributivo è costituito dagli anni di vita attesa, cioè dall’età del pensionamento. Questo elemento conta di più della velocità di progressione della retribuzione. A questo proposito non va dimenticato che in molti casi la scelta del pensionamento non è stata spontanea, ma necessitata, infatti una significativa fetta delle ristrutturazioni industriali sono state fatte nei decenni passati usando il sistema pensionistico a volte con misure ad hoc (prepensionamenti). Operai, impiegati, ma anche dirigenti sono stati messi in pensione che lo volessero o meno.
Se fosse inevitabile intervenire sulle pensioni in essere, sarebbe necessario utilizzare un metodo di calcolo capace di coinvolgere tutte le pensioni senza eccezioni, distinguendo tra loro i diversi casi e cioè applicando riduzioni differenziate in base al vantaggio effettivo ricevuto. Così congegnato il meccanismo potrebbe forse sopravvivere a un esame di costituzionalità. L’idea di fissare un limite inferiore (sia esso 3.000 o più al mese) e di applicare un taglio solo alle pensioni che superano la soglia è errore logico che diventa un vizio giuridico. Lo stesso vale per il blocco della indicizzazione al di sopra di un dato livello.
È sorprendente che nessuno (o quasi) si renda conto di questi dati di fatto piuttosto semplici, e che il Parlamento si disponga a intervenire senza criterio sulla parte più debole e fragile della popolazione.
Il Sole 24 Ore – 16 novembre 2013