Milano, via del Gesù. È appena spiovuto. Una damona bionda sgrida il suo alano: «Serghei! Chi ti credi di essere? Via quei piedi dalle pozzanghere! Sitz! Sitz!». Supermercato a Lambrate. Una donna nella mia corsia è china su una carrozzina, a cui parla in bambinese: «Lo prendiamo il succhino cì? Cì cì cì, lo prendiamo, quello alla melina che ci piace tantino, cì cì cì». Penso: povero bambino. La sorpasso, e nella carrozzina ci sono tre pincher. Mirko, 38 anni, due anelli di brillanti al dito, fa leccare il suo yogurt a Giulietta, yorkshire. Mi scappa una smorfia: «Non sarà antigienico? I cagnolini, dopotutto, si leccano il sedere a vicenda appena possono». Mirko, ammiccante: «Perché, noi umani no?».
Ridendo tra me e me di questa fauna umana, entro da Prince and Princess, negozio di cani ultrachic dietro il Duomo di Milano con succursali a Courmayeur e Porto Cervo. Chi sono, mi chiedo, questi eccentrici che vestono i loro cagnolini con marsine e gonnelle, li portano in giro in passeggini, li chiamano con nomi umani? Cosa ci troveranno mai in questi cani minuscoli, che sembrano più topini che discendenti del lupo? L’intento derisorio dura meno di un minuto.
Perché poi il titolare, Giuseppe Costa, mi mette in mano Stellina, una cucciolina di chihuahua bianca grande come una brioche, che mi fa le feste dimenando la codina e abbaiando: «Ih! Ih!». E il mio coriaceo cuore di reporter si squaglia come un gelato (per cani: esiste, in 12 gusti, 22 euro al kg, sul sito Petsonic.it). Stellina e i suoi simili hanno fregato anche me: il trucco della natura, mi spiegherà poi l’etologo, è la nostra attrazione innata per i caratteri neotenici, cioè per i visi (e i musetti) che hanno le proporzioni e i tratti somatici dei neonati. I cani di qualunque età e taglia, non solo Stellina, mantengono le caratteristiche dei cuccioli di lupo: la natura conosce bene il marketing.
E non è l’unica. Noi italiani spendiamo per i nostri cani e gatti, che sono 60 milioni proprio come noi, circa 2 miliardi di euro l’anno (dice il più recente report di settore Assalco-Zoomark).Volume d’affari in dettaglio: 647 milioni di euro in scatolette per i gatti, 309 milioni in scatolette per i cani, 814 milioni in crocchette, 64 milioni in sabbietta per bisognini, e così via. Un settore aumentato del 4,1% sul 2014, che a sua volta segnava +2,8% sul 2013, cresciuto il 2,1% sul 2012. E così via. «La cura degli animali da compagnia è l’unico settore merceologico che non ha mai sentito la crisi», spiega Luca Balletta, già amministratore delegato di un’azienda di pet food e ora titolare di un marchio di accessori per cuccioli «pensati per abbinarli ai vestiti delle padrone». Scelta oculata, visto che il settore che cresce di più è quello degli accessori. Giochini, guinzagli, cucce, vestitini: spendiamo in questi gadget 67,7 milioni di euro l’anno. Profumi (39 euro quello di Prince and Princess, aroma cassis, cocco e menta); smalti ad asciugatura rapida (da 9 euro); cibi sempre più gourmet. I più cult oggi sono quelli della tedesca Terra Canis, che offre ad esempio terrine di “selvaggina con zucca, amaranto e mirtilli” a circa 5 euro l’una, promettendo che siano “commestibili anche per l’uomo”.
Più spese. Più prodotti. Più glamour. La svolta è partita dai social. Su Instagram pullulano hashtag cuccioleschi: #dogsofinstagram raccoglie più di 66 milioni di foto, #catsofinstagram 55 milioni, in un tripudio di pellicce pulitissime, musetti supplici o sardonici o sdolcinati e poi cappottini, cappellini, cuscinetti. «L’effetto social, sulla nostra clientela, lo sentiamo eccome», sorride Giuseppe Costa, che dei cagnetti in vendita nel suo negozio posta quasi una foto all’ora, ogni giorno. «C’è molta voglia di tosare, accessoriare e viziare il proprio cucciolo proprio per sfoggiarlo ai follower». Suona il telefono: neanche a farlo apposta è una cliente che chiede di toelettare «Sebastian un po’ folto, stile orsetto, e Edward con la barba un po’ da hipster, come la foto che ti mando da Instagram». Luca Balletta, che produce guinzagli e pettorine «senza strass e tulle, pensati perché una padrona possa abbinarli al suo abbigliamento», ha nominato «brand ambassador» del suo marchio la cagnolina della moglie, Bambina Papaya: a pelo lungo, biondina, fotogenica, ha un profilo da appena un anno (@bambina_papaya) e spera di diventare – il padrone traduce per lei – «una delle tante Ferragni a quattro zampe che ci sono in America, veri trend-setter canini, o felini a cui le aziende offrono contratti, capaci di spostare con una foto i consumi di migliaia di utenti». Per ben figurare in foto, Papaya fa il bagnetto ogni tre giorni, e per questo è quasi inodore.
Un’esagerazione? Nala, la micia più seguita di Instagram (@nala_cat, 3,3 milioni di follower), incassa 15 mila euro a post e vende magliette, tazze, coperte con la sua effigie; non si contano i suoi emuli come la cokerina Toast (@toastmeetsworld),
Doug (@itsdougthepug, 2,6 milioni di follower), sponsorizzato da varie aziende di crocchette, il gatto-meme Grumpy, “brontolone” (@realgrumpycat, 2,2 milioni di follower e un milione di fatturato). Dietro di loro, quasi sempre, padroni che hanno smesso di lavorare e campano curando le pr dei loro amichetti. Due segreti uniscono le “pet star”. Uno è più inquietante, e ci torneremo fra poco. L’altro è sotto gli occhi di tutti: sono superaccessoriati. Giuseppe Costa – avvantaggiato, ha un negozio – mi descrive la “vita Smeralda” dei suoi sette cagnolini Cindy, Prince, Valentina, Martina, Giorgina, Giorgino, Michelina: circa duecento vestitini «per ogni occasione» e altrettanti accessori tra cui caschetti per la moto e occhiali da sole, svariate cucce luxury, una Range Rover rosa radiocomandata «su cui li porto in giro quando arriviamo a Porto Cervo, e non passiamo inosservati». Non teme critiche? «Di chi? Tutti francescani? Nessuno che si compra una borsa griffata, una macchina bella? Non è dai cappottini dei miei piccoli che si misura la beneficenza che faccio». Sua è anche la prima spa per cani d’Italia: trattamenti all’ozono, impacchi all’argilla, massaggi. Costano? Costano. «Ma spesso sono i veterinari a consigliarli, per risolvere dermatiti o infiammazioni. E per i propri figli uno spende tutto quello che può».
Già, i figli. I figli che «non vogliamo», quelli che «non sono venuti», quelli «ingrati, che mostrano affetto solo alla bisogna, non come il mio Napoleonino» sono il grande convitato di pietra del pranzo più involontariamente malinconico della mia vita. Invitati al “Bau Bau Lunch” al Golf Club di Salice Terme (Pavia): una decina di coppie bipedi e altrettanti cagnolini. Il pranzo è organizzato dalla pr di vip televisivi Lorella Maselli. Insieme a un imprenditore tatuatissimo presenta Conto Fido, charity canina che offre «ai pet meno abbienti» assistenza veterinaria. Il cliché della coppia che, senza figli, si riversa su un cucciolo mi è inviso come quello della donna single con gatto: dunque mai chiederei ai commensali se i loro cuccioletti – Asia, in cappottino di pizzo bianco, Pepa, con diadema e collier di perle, Luna, bassottina in pettorina d’oro – siano un surrogato di qualsiasi tipo d’amore. Sono loro, però, a dirlo: «Non ho un figlio, ma lei è meglio. Dà, dà, dà, e non chiede niente», mi confida a tavola l’imprenditrice e opinionista dell’Isola dei Famosi Alessandra Moschillo, “mammina” di Asia. Che ricorre all’arringa principe di ogni amore incompreso: «Se non ci sei passata, non lo puoi capire».
C’è un menù per umani, che consumiamo in fretta: quasi tutte le bistecche le padrone le passano a pezzetti sotto il tavolo, orlandosi d’unto le manicure. E poi un menu per loro: straccetti di pollo con mango, tonno scottato con zucchine e carote, ciotole di porcellana. Il cameriere in cravatta nera si china fino a terra e sembra reprimere un vaffa. I padroni, preoccupati di fare figuracce, ricoprono i cani di raccomandazioni a “comportarsi bene”, come il papà di Lessico famigliare: «Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!». I vestitini azzimati li hanno; sbrodeghezzi ne fanno perché, nonostante tutti gli sforzi di umanizzarli, sono cani. Il jack russell Jimmy fa la cacca sul pavimento scodinzolando, il barboncino Tod cerca subito dopo di montarlo, una maltesina vomita; sembra una festa Erasmus in cui sono riusciti a imbucarsi i genitori. Gran finale i macarons, fatti di soli ingredienti adatti ai cani (niente cioccolato, ad esempio, che anche in pochi grammi è loro fatale). Burro, uova, farina. In negozio costano circa un euro l’uno, e li produce Doggyebag, una “bakery per cani” bresciana. Non fanno furore fra i cuccioli. Io ne assaggio un morso: non sono male.
A questo punto non è necessario essere Papa Francesco – un anno fa aveva tuonato contro «i cristiani che amano più i cani degli umani» – per iniziare a convertire le leccornie delle nostre bestiole in pasti caldi per senzatetto o aiuti ai rifugiati. Davvero è giusto viziare tanto gli animali di casa, mentre fuori la povertà fa vittime? «La domanda ci sta, ma riflette un’impostazione etica che ha grandi limiti», spiega Simone Pollo, professore di Filosofia Morale alla Sapienza e autore di Umani e animali: questioni di etica (Carocci, 2016). «Presuppone cioè che le relazioni che abbiamo coi nostri cani e gatti siano di serie b rispetto a quelle umane. Ma è un errore: sono specie che si sono evolute insieme a noi, di cui noi, come specie e anche come individui, non possiamo fare a meno». Esempi pratici: uno studio inglese dimostra che vivere con un cucciolo riduce del 52% il rischio di asma nei bambini; il 55% degli under 14 intervistati in una ricerca italiana (rapporto Iri-Assalco 2014) dice di preferire la compagnia dell’animale di casa a un videogioco; il centro studi di Federanziani stima che, negli over 65 con malattie croniche, la proprietà di un animale da compagnia abbia «effetti positivi che fanno risparmiare al sistema sanitario nazionale 4 milioni di euro l’anno». D’accordo, ma mettiamola così: ho un cagnolino malato e curarlo costa 5 mila euro, e ho un fratello che ha un’associazione di volontariato e mi chiede la stessa donazione. Cosa è giusto fare? «Gli esempi immaginari non funzionano mai. Diciamo però che la morale deve riguardarci come esseri umani, affetti e sentimenti compresi. Non siamo un insieme di norme. Se qualcuno vietasse i libri e il cinema, perché costano, cosa faremmo?».
Ma facciamo il loro bene? «È questa», continua Pollo, la vera domanda etica che sollevano le nostre follie di padroni. «Il profumo per cani, ad esempio: altera il loro olfatto, in base al quale si riconoscono; è per loro fastidioso; serve a noi per mitigarne l’odore naturale, ma non è giusto». I vestitini? «Dipende: molte razze patiscono il freddo». Stesso discorso per scarpine (sì, scarpine: d’estate l’asfalto è rovente e d’inverno c’è il sale antineve, e i polpastrelli dei più piccoli si irritano), frequenza della toelettatura, accessori vari. «La cosa migliore è chiedere a un veterinario come regolarsi sul singolo animale», senza rigidità. «Ma il nostro errore più frequente e dannoso è quello di pensare ai nostri animali come a begli oggetti. Nelle razze “di moda’’, ad esempio, vanno molto caratteristiche fisiche che noi riconosciamo come buffe o carine, e che sono invece per loro disfunzionali». Esempi: il “sedere basso” che oggi va molto fra i pastori tedeschi, «ma che riflette una displasia dell’anca. Le dermatiti di sharpei e bulldog che scegliamo per le pieghe tanto carine della loro pelle. I nasi schiacciati, le ossature tozze di molte razze che hanno poi problemi di parto e vite brevissime». E così via.
Il secondo segreto del successo social di molti cuccioli, infatti, è che spesso a renderli “carini” è una malattia. Il virale Grumpy Cat deve il suo broncio a una forma di nanismo felino, la linguetta di fuori della micia Lil Bub (@iamlilbub, 1,5 milioni di follower) deriva da un’osteopetrosi devastante e cuccioli come @princessmonstertruck, @winstonsmushface o @loki_kitteh devono i loro milioni di seguaci a un aspetto da piccoli mostri, perché sono gravemente malati. Ma il nostro trovarli “carini” – ancora la trappola della neotenia! – fa sì che questi tratti diventino di moda, o apprezzati, a dispetto dei danni fisici che ne derivano.
Gli stessi cani “toy” delle star – anche nostrane: i cagnolini di Paola Barale, i pincherini di Elisabetta Canalis, il bulldog di Chiara Ferragni – sono capolavori di marketing. Non solo hanno lineamenti tenerissimi, ma si possono infilare in borsa, hanno un pelo corto che sta pulito, ci si può sbizzarrire a vestirli. Costano, in genere, dai 2 mila euro in su in un buon allevamento. Una cifra che spendono molti italiani, racconta il veterinario Pasqualino Santori, presidente del Comitato di Bioetica Veterinaria. «Nel mio studio ne passano sempre di più, sembrano vivere l’acquisto del cane “bello’’ come una sorta di emancipazione da famiglie magari umili. Io, se dovessi pagare per un cane, ne preferirei uno non di razza – ha notato che non esiste una parola per dirlo? – che però è figlio di cani felici, educati bene, senza problemi di ansia o aggressività». Le stesse caratteristiche che, se potessero parlare, i cuccioli vorrebbero dai loro sempre più nevrotici padroni.
Corriere della Sera-Sette – Irene Soavi
18 maggio 2017