Il principio – enunciato dall’articolo 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241 – di «collaborazione, efficacia ed economicità dell’azione dell’amministrazione pubblica» vale anche nei procedimenti aventi ad oggetto il riconoscimento di contributi, sussidi e finanziamenti pubblici.
Pertanto, l’amministrazione – nell’ipotesi di documentazione incompleta o erronea – ha l’obbligo di precisare quali documenti siano eventualmente carenti e di invitare l’interessato ad integrare quelli mancanti, non potendo limitarsi a respingere la richiesta, a distanza di anni, rappresentando genericamente che la documentazione era incompleta.
È questo, in sintesi, ciò che ha sancito la sentenza 2795 della I sezione civile della Cassazione. Un giudicato, quest’ultimo, destinato a rimanere come riferimento autorevole, non solo in campo giurisprudenziale – e non solo nella materia dei cosiddetti “incentivi pubblici” – ma anche nella corretta “impostazione culturale” delle modalità di strutturazione del rapporto tra Stato e cittadini. L’essenzialità del dispositivo non ne diminuisce, infatti, la valenza valoriale, l’applicabilità diffusa a fattispecie molteplici e, soprattutto, l’innovatività, in particolar modo nell’atteggiamento con quale la Corte affronta il tema della “parità” tra istituzioni e soggetti privati e, più in generale, quello della funzione strumentale della pubblica amministrazione agli interessi della collettività governata.
La vicenda oggetto di giudicato prende le mosse dalla non completa erogazione della terza quota (comprensiva dello stato finale per il completamento dei lavori) di un “contributo per la ricostruzione” di un immobile colpito dal sisma della Campania/Basilicata del 1980 (disciplinato dalla legge 219/81). Dopo aver erogato le prime due quote del beneficio al proprietario di un immobile oggetto di lavori di ristrutturazione, un Comune del napoletano aveva corrisposto solo in parte quanto richiesto con la presentazione del terzo (ed ultimo) stato d’avanzamento lavori. Ne era conseguito un procedimento monitorio, con emissione – nel 1996 – di un decreto ingiuntivo a carico dell’ente inadempiente che – costituendosi nel giudizio di primo grado – aveva motivato il suo comportamento adducendo che «lo stato finale dei lavori non era corredato dalla documentazione prevista dalla legge e che, con una delibera di giunta, era stato stabilito che le pratiche per la determinazione del contributo definitivo dovessero ricevere il parere (qui mancante, ndr) dell’apposita commissione di cui all’articolo 14 delle legge 219 del 1981».
In altre parole, si era concretizzata una fattispecie ricorrente nella gestione degli aiuti pubblici e che riguarda anche molte imprese italiane, destinatarie degli incentivi della legge 488/92. Alle prime erogazioni del beneficio corrispondono le richieste del saldo (al termine della realizzazione degli investimenti) che, però, non vengono seguite né dalla corresponsione di quanto richiesto né da un altro atto (nemmeno di revoca del pregresso).
A fronte di tale circostanza, è evidente che l’unica strada per l’assegnatario del beneficio rimane quella del ricorso alle “vie legali”, con l’avvio di un lungo iter processuale, peraltro «certo nei costi e incerto negli esiti».
Nel caso di specie, l’esito è stato favorevole. Se una legge – come l’articolo 21, comma 3, del Dlgs 76/90 – pone a carico dell’amministrazione l’accertamento della regolarità della documentazione amministrativocontabile a corredo della pratica per la liquidazione del contributo, è evidente che l’obbligo di accertamento è «a carico dello Stato» (al pari dell’obbligo di prova del diritto, gravato sul richiedente). L’ente erogatore è sempre “obbligato” a svolgere un’attività di verifica, di cui è tenuta a rendere conto nell’ambito del contraddittorio con il privato, configurandosi come contrario alla legge (quella che impone, più in generale, il rispetto della “buona fede”) un comportamento difforme.
In definitiva, viene segnato un nuovo punto a favore di chi ritiene che l’attività della pubblica amministrazione deve svolgersi nel rispetto dei principi e delle disposizioni del Codice civile e, in generale, di quello della “buona fede”, anche interpretativa. Mai la posizione di preminenza, derivante dai diritti potestativi, deve contrastare coi principi di efficacia, imparzialità e trasparenza dell’azione dello Stato.