Beniamino Bonardi. A Miami, in Florida, si è svolto l’undicesimo round di negoziati sul Trattato di libero scambio tra Ue e Usa (TTIP), due settimane dopo che gli Stati Uniti hanno concluso gli accordi con altri 11 paesi dell’area del Pacifico su un altro grande trattato commerciale, il TPP (Trans-Pacific Partnership). Il testo del TPP dovrebbe essere reso pubblico in novembre e poi il Congresso Usa avrà tre mesi di tempo per approvarlo, senza emendamenti, o respingerlo.
Un voto ancora incognito è quello della probabile candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, Hilary Clinton, che durante i negoziati aveva evitato di pronunciarsi in merito e che quando era Segretario di Stato, dal 2009 al 2013, aveva descritto l’accordo come potenzialmente benefico per tutti i contraenti: Usa, Canada, Australia, Brunei, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. «A oggi, non sono favorevole. Credo che ci siano ancora molte domande senza risposta», ha dichiarato Hilary Clinton, che si è mostrata scettica sul fatto che l’accordo possa «creare posti di lavoro negli Usa, aumentare i salari e migliorare la sicurezza nazionale».
Con la chiusura dei negoziati sul Trattato transpacifico, il governo Usa può concentrarsi sui negoziati relativi al Trattato con l’Unione europea, proprio mentre l’Ue subisce una forte pressione dell’opinione pubblica contraria a questo accordo, che si è concretizzata in più di 3,2 milioni di firme raccolte in calce alla petizione che chiede l’interruzione dei negoziati, dalla campagna europea Stop TTIP e con una manifestazione che il 10 ottobre ha visto scendere in piazza 250.000 persone a Berlino. In questo contesto, all’Expo di Milano si è svolto un convegno in occasione della prima “Assemblea mondiale delle Indicazioni Geografiche”, che ha visto un raro confronto pubblico ad alto livello tra Ue e Usa, che a tratti è stato molto “franco”, come si direbbe in linguaggio diplomatico. L’incontro in conclusione ha visto il vice-ministro allo Sviluppo economico con delega al Commercio estero, Carlo Calenda, minacciare di non firmare il TTIP e di scatenare una “competizione violentissima” e un “conflitto sui mercati dei paesi terzi”, se gli Usa dovessero mantenere una posizione di chiusura sull’Italian sounding, cioè sull’utilizzo di immagini e nomi evocativi del nostro paese ma riguardanti prodotti made in Usa.
Già un anno fa Calenda aveva avvertito che le Indicazioni Geografiche facevano parte di quelle materie “che hanno un alto grado di rilevanza e sensibilità politica”, per le quali “un contesto politico ostile potrebbe rivelarsi rovinoso, se non controbilanciato da un forte esercizio di leadership politica negli Stati Uniti e in Europa. Più il risultato si allontana più il negoziato, rimanendo in balia dei suoi oppositori, rischia di spostare alcuni di questi dossier verso la categoria delle materie non negoziabili”.
I prodotti alimentari a cui l’Unione europea riconosce l’Indicazione geografica godono di questa protezione nell’Ue ma non negli Usa. Alcuni subiscono la concorrenza di prodotti statunitensi con il nome generico italiano o simile, a cui si aggiunge spesso un’immagine, come la bandiera tricolore, che rimanda all’Italia, traendo in inganno il consumatore e inducendolo a pensare che si tratti di un prodotto made in Italy. Il vice-ministro Calenda ha definito questa pratica un esempio di “contraffazione”, anche se non lo è in termini legali, e ha indicato quale potrebbe essere un punto di accordo, tenendo presente che per circa il 90% dei prodotti con Indicazione geografica non ci sono dispute in atto.
Il convegno svoltosi all’Expo ha evidenziato come gli approcci siano diversi tra le due sponde dell’Atlantico e come sia difficile capirsi. Negli Stati Uniti non c’è nulla di equivalente alle indicazioni geografiche e la protezione di un prodotto avviene attraverso la registrazione del marchio, alcuni dei quali confliggono con prodotti europei che godono dell’Indicazione geografica. Jaime Castaneda, direttore esecutivo dello statunitense Consortium for Common Food Names, ha accusato la Commissione europea di non aver aiutato le due parti a capirsi, ricordando che gli Usa sono un paese di immigrati, che abitano lì da oltre un secolo e che vi hanno portato anche le proprie tradizioni e la propria cultura, tra cui quella alimentare. In questo modo, per alcuni formaggi di origine italiana, ad esempio, si è costruito un solido mercato e oggi, ha affermato Castaneda, rivolgendosi agli europei, «non potete sfruttare qualcosa che qualcuno ha costruito molto tempo fa».
Una posizione, quella dell’esponente statunitense, che ha sollevato la reazione di Jean Luc Demarty, Direttore generale del Commercio della Commissione europea, che ha sottolineato come in un negoziato non si debba fare la caricatura delle posizioni dei propri interlocutori, rimarcando come l’obiettivo europeo non sia quello di eliminare dal mercato i prodotti statunitensi. Anche Elena Bryan, Senior Trade Representative della delegazione Usa presso l’Unione europea, ha ripreso il concetto secondo cui ci sono Indicazioni geografiche europee che possono essere in conflitto con marchi statunitensi, che esistevano già da prima delle IG. La rappresentante del governo Usa ha lamentato che, mentre sul mercato statunitense le Indicazioni geografiche europee vanno bene e aumentano il loro fatturato, in Europa i prodotti Usa hanno difficoltà, perché il sistema delle Indicazioni geografiche costituisce una barriera. Secondo Elena Bryan, «non sorprende che i nostri stakeholder siano preoccupati, perché i loro prodotti non hanno gli stessi benefici sui mercati europei, che invece hanno i prodotti europei sul mercato Usa».
Le affermazioni della rappresentante del Commercio Usa hanno provocato la dura replica del nostro vice-ministro allo Sviluppo economico, secondo il quale è necessario essere disposti ad un compromesso ma “quel che non si può fare è che il consumatore americano sia convinto di acquistare un formaggio Asiago fatto in Italia, mentre è fatto nel Wisconsin”. Sulle Indicazioni geografiche, «noi non possiamo non ottenere qualcosa. Questo non può succedere o, meglio, può succedere se uno decide di non chiudere l’accordo», ha affermato Calenda, rivolgendosi alla rappresentante del governo Usa: «Questa sarebbe una cosa che non funzionerebbe per voi, perché in questo caso noi continueremmo a fare quel che abbiamo ben fatto, anche con la Commissione europea, cioè far includere il riconoscimento di liste di indicazioni geografiche in tutti i mercati terzi, e la storia degli ultimi anni dimostra che siamo molto bravi a fare questo. I paesi del Centro America hanno fatto opposizione alla registrazione del Prosciutto di Parma e io ho messo il veto alla ratifica degli accordi con l’America centrale». Se non si faranno progressi, ha avvertito Calenda, quel che succederà sarà «un conflitto sui mercati terzi, destinato a complicare moltissimo gli accordi generali sul commercio, non solo il tema delle Indicazioni geografiche».
Pur ribadendo che a suo avviso «il TTIP è un fatto fondamentale di civiltà», il vice-ministro allo Sviluppo economico ha ricordato alla controparte che, sebbene gli Usa siano «una grande superpotenza, vincere su tutto non si può mai e normalmente conduce alla sconfitta».
Il Fatto alimentare – 8 novembre 2015