Si trovano un po’ ovunque, dai cosmetici all’abbigliamento, dagli alimenti alle auto e agli elettrodomestici. I nanomateriali, ovvero quei materiali che hanno componenti strutturali con almeno una dimensione nell’intervallo 1-100 nanometro (miliardesimo di metro), sono ormai onnipresenti nella nostra vita quotidiana.
Grazie alle caratteristiche fisiche e chimiche, essi offrono indubbiamente dei vantaggi, ma anche, e questo è il rovescio della medaglia, una particolare tossicità. Quest’ultima fino a oggi era piuttosto sconosciuta, dal momento che i test effettuati sugli animali davano risultati estremamente variabili da un laboratorio all’altro. Un gruppo di ricercatori americani ha però proposto un metodo per armonizzare questa valutazione, attraverso un protocollo di analisi comune. Il risultato è uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Health Perspectives che ha coinvolto 13 università Usa e che conferma che alcuni nanomateriali tra i più diffusi provocano nei topi e nei ratti infiammazioni alle vie respiratorie.
I nanomateriali sono spesso utilizzati senza che si possa stabilirne la tracciabilità. Tuttavia l’Anses, l’Agenzia nazionale francese di sicurezza sanitaria dell’alimentazione, dell’ambiente e del lavoro, ha censito Oltralpe almeno 246 prodotti di largo consumo disponibili sul mercato e contenenti nanomateriali. E nel mondo i prodotti sarebbero più di 2 mila.
Già in passato alcuni studi avevano suggerito che i nanotubi di carbonio a parete multipla, mille volte più sottili di un capello e presenti in numerosissimi prodotti, potessero provocare mutazioni del Dna o favorire la trasformazione cancerosa di cellule che hanno subito tali mutazioni. L’11 marzo l’autorità statunitense per la sicurezza sul lavoro ha pubblicato sul proprio sito nuovi dati che mostrano per la prima volta su un modello sperimentale che questi nanotubi possono provocare il cancro.
Un’altra sostanza nanoparticolare, il diossido di titanio (che si trova abitualmente nelle creme solari), già nel 2006 era stato classificato dal Centro internazionale di ricerca sul cancro nella categoria «possibile cancerogeno per l’uomo» sulla base di dati sperimentali sui ratti.
Corriere.it – 11 maggio 2013