Dal riso amaro al riso avvelenato. Amaro quello delle mondine, in acqua da mattina a sera, a lavorare fra bisce e rane e guai ad alzare la schiena altrimenti arrivava la sgridata del caporale. Ma il «Riso amaro» era buono e sano, la sofferenza era soltanto nella fatica di chi lo coltivava. Il riso avvelenato è invece quello che rischia di arrivare nelle pentole degli italiani dopo essere cresciuto in risaie lontane.
«In questo primo semestre 2014 — denuncia Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti — c’è stata una sanzione alla settimana, sul riso arrivato dalla Cambogia, per presenza di pesticidi non autorizzati o assenza di certificazioni sanitarie. E non si tratta di piccoli quantitativi: nel primo trimestre di quest’anno le importazioni da quel Paese sono aumentate del 360%».
Sciopero delle mondine e cortei in città come Milano, Bologna, Oristano, Torino… A dire la verità, le mondine erano ormai un ricordo già nel 1949, quando si girò Riso amaro e Silvana Mangano diventò la mondina più bella e famosa del mondo. «Ma noi chiamo mondine — dice Roberto Moncalvo — tutte le donne che lavorano nelle risaie e nella successiva lavorazione del riso. E oggi queste saranno con noi, per spiegare che, se non stiamo attenti, rischiamo di trovarci nel piatto un riso sconosciuto e tirato su con residui troppo elevati di fitosanitari che nei nostri campi sono stati banditi da decenni. In questi Pma, Paesi meno avanzati, si usano invece in grande quantità, come dimostrano i controlli effettuati dal Rasff, il sistema di allerta rapido europeo».
Saranno interessanti, le proteste dei contadini, per una settimana da lunedì. Verranno distribuiti anche assaggi di riso allo zafferano o panizza con riso e fagioli. «Il riso che arriva soprattutto da Cambogia e Myanmar — sostiene l’associazione dei coltivatori diretti — rischia di distruggere il nostro reddito. Per portare guadagno, il nostro prodotto dovrebbe essere pagato 322 euro a tonnellata e invece raggiunge appena i 240 euro. Questo perché c’è la concorrenza di questi Pma che mettono sul mercato il loro prodotto a 195 euro la tonnellata. Cambogia e Myanmar, in particolare, hanno fatto grossi investimenti in risaie, impianti di essiccazione e reti commerciali, con l’obiettivo dichiarato di esportare 5,5 milioni di tonnellate, pari a oltre il doppio dell’intero fabbisogno dell’Unione europea. E purtroppo stanno raggiungendo l’obiettivo: nella campagna 2008 — 2009 sono state importate da questi Paesi 179.941 tonnellate e in quella 2012 — 2013 ne sono arrivate 190.035. Soltanto le aziende risicole italiane produttrici di indica, nel 2013, hanno incassato 126 milioni, con una perdita di 30 milioni di euro, mentre i costi di produzione sono stimati in 156 milioni. Le nostre esportazioni — abbiamo impiegato decenni, per fare apprezzare i nostri risi all’estero — sono diminuite nello stesso anno del 13,6%. Guarda caso soprattutto in quei Paesi — Francia, Polonia, Paesi Bassi — che sono oggi i migliori clienti della Cambogia».
Cambiare le cose non sarebbe impresa impossibile. Basterebbe dare al consumatore la possibilità di scelta. Invece, nelle confezioni, non è scritto da dove il riso arrivi e dove sia stato lavorato. I coltivatori italiani non vogliono che il loro prodotto sia mescolato ad altri risi. Denunciano le risiere che magari scrivono Arborio o Carnaroli sull’etichetta e poi magari mettono dentro anche riso este- ro, spesso importato come risone o semi lavorato, anche utilizzando triangolazioni con Paesi a dazio zero. Il mercato nazionale, del resto, non è certo fra i più avanzati. Ci sono tante Borse che «inventano » i prezzi, tenendo conto soprattutto delle esigenze dei commercianti. «Vogliamo una Borsa unica per tutta l’Italia», chiede la Coldiretti, assieme a un nuovo ruolo dell’Ente Risi.
«In Italia — dice Gianmaria Melotti, con risaia e vendita a filiera corta a Isola dello Scalo nella bassa veronese — comandano ancora i mediatori, che hanno come obiettivo principale quello di confondere i coltivatori. “Vendete subito, che la nuova annata di Arborio è ottima e abbondante e i prezzi del riso dell’anno scorso crollerà”. C’è chi ci crede e svende sottocosto, dopo avere lavorato un anno intero. Nella mia azienda i mediatori non si fanno vedere. Noi produciamo 12 mila quintali di riso e vanno tutti nelle mani e nei piatti dei consumatori. Abbiamo aperto una risotteria qui a Isola dello Scalo e da poco un’altra a New York. È venuto a mangiare da noi anche il sindaco Bill de Blasio. A Manhattan abbiamo messo su due piccole risaie per fare vedere ai bambini americani come nasce il riso. Certo, noi abbiamo un prodotto di nicchia, con Vialone nano e Carnaroli, ma crediamo — io e i miei fratelli Luca e Francesca — che il mondo del riso si possa salvare creando migliaia di nicchie, con milioni di consumatori che possono conoscere la vita del riso buono e anche la faccia di chi lo produce».
Senza nuove normative, c’è il rischio che il mondo di Riso amaro — la fatica ma anche la festa, il ritorno a casa dopo la mietitura con il salario e 20 chili di riso — resista solo nel film. «In agosto, con il caldo e l’umidità — racconta Gianmaria Melotti — devi stare attento perché nel riso ammassato nascono il punteruolo — una specie di formichina — e le larve che diventano farfalline. Rovinano l’intero prodotto. Dall’altra parte del mondo arrivano invece stive cariche di migliaia di tonnellate di riso che viaggiano per mesi. Vengono controllate e dentro non ci sono né larve né punteruoli. Cosa ci metteranno dentro, per eliminare questi insetti? Salvare il nostro riso vuol dire salvare anche la nostra salute».
Repubblica – 11 luglio 2014