Quando la crisi morde e l’impresa è costretta a tagliare posti di lavoro fra di loro in tutto e per tutto simili, il datore non è libero di mandare a casa chi vuole ma dovrà comunque rispettare i principi di “correttezza” e “buona fede”.
Lo ha affermato la Sezione lavoro della Corte di cassazione, con la sentenza n. 7046/2011 (si legga la sentenza sul sito di Guida al Diritto), accogliendo il ricorso di una dipendente di una agenzia di assicurazione che aveva fatto causa alla compagnia ritenendo il proprio licenziamento discriminatorio.
Verdetti opposti per la lavoratrice
Dopo aver avuto ragione in primo grado, la lavoratrice aveva subito un verdetto opposto in Appello, dove, la Corte aveva riconosciuto «giustificata la decisione di ridurre il personale per mantenere l’equilibrio tra costi e ricavi». Stabilendo inoltre che il datore, a differenza di quanto previsto per i licenziamenti collettivi, «non fosse vincolato ad alcun criterio di scelta» e tantomeno «al confronto tra le situazioni soggettive dei vari dipendenti».
Per i giudici di piazza Cavour si applicano regole di correttezza
Una motivazione che non ha convinto per nulla i giudici di Piazza Cavour che, ribaltando ancora una volta l’esito del giudizio, hanno fissato i paletti cui deve attenersi ogni impresa nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In particolare, quando si è di fronte alla necessità di ridurre posizioni lavorative di personale “omogeneo” e “fungibile”, al quale dunque non si possono applicare i consueti criteri di valutazione, e cioè: l’utilità della singola posizione o la possibilità di ripescaggio in altre funzioni aziendali, dovranno considerarsi come criteri obbligatori “i carichi di famiglia” e l'”anzianità” del dipendente.
Dunque, l’azienda non potrà utilizzare esigenze legate alla riduzione dell’attività produttiva e dell’organizzazione del lavoro per mettere in campo atti “discriminatori” ma dovrà improntare la sua azione alle regole di correttezza, in base agli articoli 1175 e 1375 del codice civile, che devono sempre regolare i rapporti tra le parti di un contratto. Per la Cassazione «pur nella diversità dei relativi regimi» vanno, perciò, ripescati i criteri previsti, all’articolo 5 della legge 223/1991 per i licenziamenti collettivi, nei casi in cui gli accordi sindacali non prevedano diversi e condivisi criteri di scelta.
ilsole24ore.com – 29 marzo 2011