«Currìti! Currìti! Piccioli europei pi ttutti!». Per decenni è stato questo l’incitamento diffuso in Sicilia con lo spirito dei mercanti in fiera di una volta che sbandieravano tra i banchi di verdura e di vestiti gli imperdibili affaroni a portata di mano di ogni cliente: «Correte! Correte! Soldi europei per tutti!». Un andazzo stupefacente e vergognoso. Che poche denunce spiegano con la chiarezza del libro di Nuccio Anselmo e Giuseppe Antoci «La mafia dei pascoli. La grande truffa all’Europa e l’attentato al Presidente del Parco dei Nebrodi». Libro che ricostruisce l’evoluzione dell’antica mafia agropastorale, capace di gesti di feroce brutalità ma per affari economicamente minori. Mafia che grazie appunto ai «piccioli europei» avrebbe intascato negli ultimi dieci anni un bottino immenso: tre miliardi di euro potenziali.
E la cifra non è buttata lì da un titolo di giornale. È la stima del protagonista principale della guerra alla gigantesca truffa gestita dalle cosche sui terreni agricoli. Cioè Giuseppe Antoci, che dopo la nomina nel 2013 a presidente del Parco dei Nebrodi è riuscito grazie al suo «Protocollo di legalità» a scardinare il sistema.
«La mafia voleva la terra dei pascoli, ma lui gliel’ha tolta — scrive Anselmo —. Per decenni intere famiglie mafiose delle province di Messina, Catania, Enna, Caltanissetta, Siracusa, Palermo, terrorizzando gli allevatori onesti hanno affittato i terreni del Parco per poche migliaia di euro, incassandone ogni anno centinaia di migliaia dall’Unione europea». Scampato miracolosamente, grazie alla scorta e all’auto blindata, a un attentato nel maggio 2016, Giuseppe Antoci è per Andrea Camilleri «un eroe dei nostri tempi». Per gli «euro-mafiosi» il Nemico numero Uno. Quello che ha scoperchiato il Grande Affare.
«Innumerevoli». Basta quella parola utilizzata nella relazione ufficiale di Luciana Savagnone, la presidente della Corte dei Conti siciliana all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018, per capire quanto diffusi continuino ad essere nell’isola gli imbrogli all’Unione europea. Rileggiamo: «Nell’anno 2017 questa Sezione si è occupata innumerevoli volte di danni erariali provocati dallo spreco di fondi comunitari, perché indebitamente erogati in favore di soggetti che non avevano i requisiti richiesti ovvero perché utilizzati in modo improprio».
Sono passati vent’anni, dalle prime denunce. E per vent’anni l’Europa s’è lamentata. Non solo per gli incredibili ritardi nella programmazione da parte delle autorità siciliane dei progetti operativi da presentare per ottenere i soldi (ritardi che secondo alcune stime avrebbero causato la perdita di almeno 12 miliardi e mezzo di finanziamenti), ma anche delle truffe ripetute ai danni delle casse comunitarie.
Bene, spiegava a metà maggio del 2018 Nino Amadore sul Sole 24 Ore: «I numeri, come si suol dire, sono bastardi e quei numeri bocciano senza appello la Sicilia: su una dotazione complessiva di 4,557 miliardi distribuita in dieci assi prioritari è vero che è stato impegnato il 55,3% (2,523 miliardi). E la spesa? “Si è molto in ritardo”, dice Nicolas Gibert-Morin, responsabile della Commissione Ue per Italia e Malta: “Al 31 gennaio 2018 la spesa presentata è pari allo 0,37% della dotazione a fronte di una media italiana del 4,5 per cento. Si tratta di un gap sostanziale che rappresenta una forte criticità per il raggiungimento dell’obiettivo di fine anno”». Lo 0,37 per cento! (…)
È un delitto non approfittare nel modo giusto dei soldi europei. Lo dimostra lo Yugozapaden, la regione di Sofia: aveva nel 2000 un Pil pro capite al 37% della media europea e nel 2016, certifica Eurostat, era già al 78%. Dopo aver sorpassato tutto il nostro Sud, recuperando in tre lustri l’immenso distacco che aveva dalla Sicilia (nel 2000 al 75%, oggi al 60% del Pil pro capite continentale) e passando da meno 38% a più 18%. Una umiliazione.
E col passare degli anni, a mano a mano che la Sicilia perdeva colpi e arretrava e si impoveriva, troppi siciliani hanno continuato purtroppo come niente fosse, cercando di rubare all’Europa tutto quello che potevano rubare. Ed ecco anche in tempi recentissimi la truffa dei 200 mila euro di contributi per ricostruire a Ispica un bed & breakfast e farci in realtà una villa di famiglia senza mai affittare una camera. E i 180 mila stanziati per un «impianto espositivo museale» sui «Castelli di Federico II di Svevia in Sicilia» dove tutte ma proprio tutte le carte erano farlocche. E via così…
È in questo contesto che nasce lo scellerato business della «mafia dei pascoli». «Il metodo era sempre lo stesso», spiega Giuseppe Antoci nella lunga intervista a Nuccio Anselmo, «le Amministrazioni Locali, gli Enti Regionali, e i vari Enti Pubblici erano proprietari dei terreni che venivano messi al bando per l’affitto. I sindaci, gli amministratori, spesso venivano anche un po’, come dire, spinti a fare i bandi, anche se non volevano farli. Il metodo adoperato dai mafiosi era quello di partecipare ai bandi o con una società esistente o creandone una nuova, mettendovi all’interno quattro/cinque soci con nomi di calibro mafioso importante».
Il primo effetto ottenuto dai mafiosi quale era? «Che gli allevatori onesti, coloro che volevano affittare i terreni per poi comunque fare o coltivazioni o allevamento biologico, non partecipavano ai bandi perché avevano paura. Quindi, cosa accadeva in concreto? Il bando veniva partecipato solo da un’azienda, con incrementi a base d’asta praticamente ridicoli, di un euro addirittura, e a quel punto la gara veniva aggiudicata».
Per capirci, «mille ettari, che sono poca roba, venivano pagati dagli affittuari 36,40 euro a ettaro compresa l’Iva, e su quello stesso ettaro, facendo più misure sui fondi europei, cioè chiedendo più volte i contributi per lo stesso terreno, si riuscivano a ottenere anche mille-mille e trecento euro. Insomma, per fare dei conti, su mille ettari di terreno, un contratto d’affitto veniva pagato 36.400 euro l’anno e si riuscivano a incassare su quei mille ettari anche 700-800 mila euro l’anno o addirittura un milione-un milione e trecentomila euro, a seconda della tipologia di truffa»…
«Bene, grazie, arrivederci», gli mandò a dire a metà febbraio del 2018 Nello Musumeci, eletto tre mesi prima presidente regionale. «Mai un contatto diretto. Mai un biglietto. Mai una telefonata», mastica amaro Antoci. Rimosso sei mesi prima della scadenza. Spoils system, disse il governatore. E ironizzò: «Perché il Pd non ha valorizzato una sua risorsa così importante candidandola alle elezioni?». Certo è che il segnale alla mafia dei pascoli, sorride l’ex presidente ancora sotto scorta, «non poteva essere più chiaro di così…».
IL CORRIERE DELLA SERA