«Autonomia per tutti». Per il Nord e per il Sud, per Trento e Bolzano, il Veneto e la Sicilia, l’Emilia Romagna e la Campania. Lo dicono tutti, in questi giorni concitati, ma le stesse parole suonano in modo diverso a seconda di chi le pronuncia. Detto dal governatore Luca Zaia, ad esempio, hanno il sapore della sfida, della serie: se anche al Sud c’è chi si sente pronto a far da sé, ci provi e poi vediamo come va a finire. Detto dal suo omologo campano, Vincenzo De Luca, suona come la reazione orgogliosa di un Mezzogiorno che non ci sta a passare per la zavorra d’Italia. Detto dalla Lega di Matteo Salvini pare una bandiera azzeccatissima da sventolare nella battaglia per l’egemonia nazionale. Detto dal Movimento Cinque Stelle di Luigi Di Maio sembra il modo migliore per disinnescare le pretese delle Regioni del Nord, perché «autonomia per tutti», a ben vedere, è un po’ «autonomia per nessuno».
«Parlare di “un’autonomia per tutti”’ evidenzia per l’ennesima volta il grande bluff del referendum, una vera e propria presa in giro, costata peraltro 16 milioni» stiletta Graziano Azzalin, consigliere regionale del Pd. Certo da quel 22 ottobre 2017, quando in Veneto votarono 2,3 milioni di persone facendo trionfare il «Sì» col 98%, il quadro politico e istituzionale è radicalmente cambiato. Dopo un anno e più di work in progress dietro le quinte, nel silenzio e nel disinteresse più totale dei media e della politica nazionale, negli ultimi due mesi il regionalismo differenziato è stato scaraventato al centro della scena, al punto da essere indicato tra gli inciampi che potrebbero far cadere il governo. E così, proprio quando pareva si fosse ad un passo dalla firma dell’intesa, l’autonomia è finita stritolata nella tenaglia delle proteste del Sud e delle paure dell’Esecutivo.
Al momento i dossier sul tavolo del ministro per gli Affari regionali Erika Stefani sono 9, un numero importante se si pensa che le Regioni in Italia sono 20 e, di queste, 5 sono già a statuto speciale (fatti due conti, insomma, si sono fatte avanti 9 Regioni a statuto ordinario su 15, ben oltre la metà). Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono quelle allo stadio più avanzato. Il lavoro dei tavoli tecnici è concluso e si attende quello politico per dipanare gli ultimi dubbi in capo ai ministeri dell’Ambiente, della Sanità, dei Beni Culturali e delle Infrastrutture (incidentalmente, tutti a guida pentastellata). A queste tre Regioni, come ammettono gli stessi tecnici del ministero, va dato il merito di aver fatto da apripista, indicando una strada possibile. L’articolo 116 della Costituzione, infatti, era una selva oscura, priva di «istruzioni per l’uso». Con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna è stato possibile individuare un metodo (i tavoli tecnici one-to-one ministero-Regione) e una possibile via d’uscita, l’intesa sull’esempio di quelle strette con le confessioni religiose (è stata invece abbandonata l’idea, avanzata dal Veneto, della legge delega e dei decreti delegati). Avanguardista è anche il dibattito in corso, e non ancora concluso, sul modo di coinvolgere il parlamento nell’iter di devoluzione.
A seguire c’è il Piemonte, che con il presidente Sergio Chiamparino ha formalizzato al ministero all’inizio dell’anno la richiesta di ottenere 10 tra le 23 materie consentite dalla Costituzione (Veneto e Lombardia le hanno chieste tutte, l’Emilia Romagna 15). Liguria, Toscana, Umbria e Marche hanno incontrato il ministro Stefani con i rispettivi presidenti, un primo contatto istituzionale a cui però non ha ancora fatto seguito la comunicazione dettagliata delle materie e delle funzioni che si vorrebbero ricevere dallo Stato, passaggio, questo, ritenuto in via della Stamperia essenziale per l’avvio dell’iter ex articolo 116 (nel frattempo alcune Regioni, come la Toscana, sembrano pure aver cambiato idea: «È un progetto sbagliato – ha detto il presidente Enrico Rossi – con gli “staterelli” si spezza l’Italia»). Infine, c’è la Campania: De Luca, antagonista di Zaia nella disfida nata dalla lamentata «secessione dei ricchi», incontrerà Stefani il 7 marzo prossimo.
E si muovo anche le Regioni a statuto speciale, decise a difendere la loro «diversità» dalle vicine a statuto ordinario e ad approfittare del dibattito in corso per incrementare i loro margini di autonomia, con nuove rivendicazioni. Sul finire della scorsa legislatura sia Trento che Bolzano avevano ipotizzato il trasferimento di nuove competenze in materia fiscale e ambientale (specie per quel che attiene la gestione della fauna, e cioè lupi ed orsi) e prima del referendum costituzionale Renzi-Boschi avevano anche valutato di scrivere il terzo statuto dell’autonomia, dopo quello del 1948 e quello del 1972. Anche il Friuli Venezia Giulia è in movimento e ha appena annunciato «un accordo storico» con il ministero dell’Istruzione, «il primo passo verso la regionalizzazione del sistema scolastico del Friuli Venezia Giulia». Proprio uno dei punti più controversi dell’intesa agognata dal Veneto.
Corriere del Veneto