Ritardi, sistemi di raccolta dei dati diversi anche tra le aziende sanitarie di una stessa regione (alcune ancora scarsamente digitalizzate) poche o nulle informazioni, se si escludono quelle anagrafiche, sui contatti di un caso positivo. Poi tanti errori sulle date e incongruenze. Che il servizio sanitario nazionale non sia stato in grado di tenere sotto controllo la diffusione dei contagi, attraverso il contact tracing,è stato già dimostrato. Ora però è un rapporto di Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive a spiegare che cosa non ha funzionato nei tracciamenti, con una analisi che ha preso in esame, oltre all’Italia, la Spagna e l’Irlanda. Il risultato è una bocciatura per il sistema sanitario nazionale, che come sappiamo è decentrato, con le competenze affidate alle Regioni e alle due province autonome di Trento e di Bolzano.
IL RAPPORTO, pubblicato il 15 marzo, ha analizzato il periodo compreso tra settembre del 2020 e aprile del 2021. Il ministero della Salute ha messo a disposizione delle Regioni Go.Data, una piattaforma progettata per gli epidemiologi. Ma solo alcune l’hanno utilizzata, mentre altre, prive di supporti digitali, hanno caricato i dati su fogli elettronici. Questo ha comportato ritardi per l’analisi degli indicatori, come le informazioni sul caso positivo, quelle sui contatti stretti, sulle relazioni tra questi ultimi e la persona contagiata. “Mentre i dati sui casi erano di buona qualità – scrive il centro europeo –, quelli sui contatti spesso includevano solo informazioni di carattere demografico, con varie incongruenze soprattutto riferite alle date”. Così, sovente, casi e contatti “erano collegati a un evento e non a un caso indice”. E spesso la “data di insorgenza del primo caso rilevato era posteriore a quella di insorgenza nel secondo caso, che si pensava fosse stato contagiato dal primo”. L’Ecdc rammenta come le singole Regioni e le aziende sanitarie abbiano deciso autonomamente come gestire il contact tracing sul piano operativo. La strategia nazionale di monitoraggio ha previsto che gli operatori impegnati nel tracciamento debbano essere uno ogni 10 mila abitanti. E tutte le aziende sanitarie sono state sollecitate a raccogliere un set minimo di dati sui contatti e sui casi correlati, da elencare in un database. Quindi, non solo informazioni anagrafiche, ma anche data, ora e durata dell’ultima esposizione al caso positivo, nonché il contesto in cui è avvenuto il contatto. Il tracciamento richiede anche che siano raccolti dati clinici su eventuali comorbilità o sull’insorgenza dei sintomi, attraverso un colloquio telefonico durante il quale l’o p e rat o r e deve fornire anche dettagli sull’isolamento per fermare la trasmissione del virus. Ma le cose non sono andate affatto così, come rileva il rapporto. “La raccolta dei dati –si legge – varia da regione a regione e tra le stesse aziende sanitarie. Molte li caricano su fogli di calcolo come Microsoft Excel e in alcune aree i sistemi non sono digitalizzati”.
Il Fatto Quotidiano