Gabriele Martini, La Stampa. Dall’involtino primavera alla tempura il passo è breve. A volte troppo. Dietro il boom del sushi in Italia c’è la riconversione dei ristoranti cinesi. Nulla di male, se non fosse che dai controlli dei Nas e dalle denunce degli operatori emergono spiacevoli sorprese: materia prima di scarsa qualità, pesce di dubbia provenienza e intossicazioni. Oggi un ristorante su dieci ha in menù piatti di sushi. Eppure, seconde le stime della Federazione italiana pubblici esercizi, di questi solo il 7% è a gestione giapponese. La stragrande maggioranza è in mano a cinesi. A Milano, capitale italiana del pesce crudo in salsa orientale, Tripadvisor recensisce oltre 500 locali di questo tipo. Ma le imprese individuali di ristorazione appartenenti a cittadini nipponici sono nove (quelle cinesi 473). A Roma 14 e a Torino 5. Bar, take away, ristoranti: nella galassia del sushi all’italiana c’è di tutto. Ma i locali di alta cucina sono pochi.
La maggioranza si affida alla formula «all you can eat», con 10 euro a pranzo e 20 a cena mangi pesce crudo senza limiti. La domanda viene spontanea: come può costare così poco? «È semplice: non può», risponde Bernard Journo, co-proprietario di Gourmet Line Nipponia, azienda che commercia specialità gastronomiche destinate alla ristorazione giapponese in Europa. «Il problema – spiega – è la scarsa qualità della materia prima. Inoltre, per servire pesce crudo, vanno seguite procedure di conservazione e preparazione meticolose che richiedono specifiche professionalità. Ecco perché un pasto a base di sushi non può costare come una pizza».
Spesso il pesce che finisce nei menù di sushi non passa dai circuiti tradizionali. «I ristoratori orientali raramente comprano da noi», conferma Renato Malandra, medico veterinario dell’Ats che da trent’anni controlla il pesce del mercato ittico di Milano, il più grande d’Italia. «È vero, alcuni hanno i loro fornitori. Il problema è che per l’approvvigionamento del prodotto ittico non seguono sempre il criterio della qualità, ma guardano quasi esclusivamente al fattore costo», conferma Giulio Tepedino, esperto di Eurofishmarket, azienda di consulenza nel settore ittico. «A volte capita, frequentando mercati all’ingrosso, di vedere operatori di ristoranti sushi acquistare i prodotti a fine giornata in modo da accaparrarsi il prezzo migliore». La situazione si complica quando viene meno la tracciabilità. «Nei ristoranti etnici la filiera dei prodotti non sempre è chiara», avverte Rolando Manfredini, responsabile sicurezza alimentare di Coldiretti, secondo cui «sofisticazioni e contraffazioni del pesce sono all’ordine del giorno».
I gamberi vietnamiti
Cosa mangiano quando ordiamo sushi low cost? Il salmone è di allevamento, viene da Norvegia, Russia e Canada. È un pesce grasso, ma non presenta particolari problematiche. I gamberi sono importati da Thailandia, Vietnam, Bangladesh e Cina. Arrivano già abbattuti e precotti. Più raro il pesce bianco: si tratta di orate e spigole allevate in Grecia. I guai cominciano alla voce tonno. Quasi mai è pinna blu, la pregiata varietà mediterranea. Spesso viene servito il pinna gialla, diffuso negli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano. A volte, però, i ristoratori sushi si riforniscono di pesce tramite canali meno controllati. Ed è proprio in questa zona grigia che prolifera il mercato del tonno clandestino. Si tratta di pesce non tracciato, che viene catturato sforando le quote pesca consentita nei nostri mari. A volte viene congelato in ritardo, non rispetta le norme di conservazione e viaggia su furgoni non idonei al trasporto di alimenti. «Il mercato del tonno in nero esiste eccome», conferma Aldo Cursano, pioniere del sushi in Italia e vicepresidente Fipe. «Ci sono pescatori che piazzano la loro merce tramite canali illegali. Il consumatore non è garantito perché senza tracciabilità non c’è responsabilità». Con rischi per la salute dei consumatori. Il nemico numero uno è il temutissimo anisakis, un parassita intestinale che infesta le viscere dei pesci e può causare gravi danni allo stomaco umano. Poi c’è la sindrome sgombroide. «Si tratta di una patologia allergica causata dall’ingestione di pesce alterato», spiega Malandra. Ma è difficile quantificare il fenomeno: il «mal di sushi» scompare in poche ore ed è verosimile credere che molti non si rivolgano ai pronto soccorso.
Il pesce truccato
Altro fronte è l’uso di additivi chimici (più o meno legali) per mascherare il grado di deterioramento del pesce. Il Cafodos è un conservante bandito in Italia, che restituisce caratteristiche esteriori di freschezza, mentre all’interno l’alimento invecchia. Poi c’è l’acqua ossigenata, impiegata per rendere più bianche e brillanti le carni. Il monossido di carbonio è usato invece per «ringiovanire» il tonno rosso. Infine c’è l’acido borico, utilizzato sui pescherecci per mantenere il colore originario dei gamberoni.
Dal gennaio 2015 ad oggi i carabinieri del Nas hanno effettuato 2058 controlli in ristoranti etnici. In 1205 esercizi commerciali sono emerse irregolarità. Nel 70% dei casi sono state riscontrate carenze igienico-strutturali, nel 46% cattivo stato di conservazione degli alimenti, nel 19% frode in commercio, nel 7% etichettatura non conforme o mancata tracciabilità. «Ma non c’è alcuna emergenza sushi», rassicura Salvatore Pignatelli, comandante del Nas di Milano. «L’aumento delle denunce è fisiologico perché legato dall’aumento dell’offerta».
«Ciò che manca nei menù dei ristoranti sushi è il prodotto nostrano di qualità», spiega Tonino Giardini, responsabile del settore ittico di Coldiretti. Intanto anche in Italia sono sbarcate le catene internazionali come Nobu e Zuma, che contribuiscono a innalzare gli standard del sushi. Coldiretti lancia una proposta: «La sfida per i prossimi anni è quella del pesce crudo a chilometro zero, con prodotti pescati nel Mediterraneo. La cena costerà qualche euro in più, ma i consumatori premieranno chi saprà offrire la qualità».
L’INTERVISTA ALL’AMBASCIATORE NIPPONICO. «INTRODURRE UN CERTIFICATO PER GLI CHEF»
Ambasciatore Umemoto, in Italia si moltiplicano i rivenditori di sushi, ma i ristoratori giapponesi sono pochi.
«L’industria alimentare nipponica avanza, non solo in Italia ma in tutta Europa. Siamo molto felici del fatto che il sushi goda di un momento di grande popolarità. È vero, i ristoranti gestiti da giapponesi sono solo una parte. Ma per preparare pesce crudo bisogna conoscere le tecniche e seguire norme igienico precise. L’improvvisazione è un problema».
Soltanto i giapponesi sanno preparare il sushi?
«No. Il sushi è nato in Giappone, ma anche gli italiani o i cinesi possono essere ottimi chef di pesce crudo. Anzi, è giusto che il gusto venga modificato andando incontro alle preferenze dei consumatori locali. Tuttavia temo che, con il verificarsi di intossicazioni alimentari dovute a una preparazione errata, il sushi possa essere percepito come un alimento pericoloso».
Come evitarlo?
«Il rispetto delle norme igienico sanitarie è di competenza degli uffici italiani preposti, ciononostante anche noi abbiamo intenzione di impegnarci nel divulgare le nostre conoscenze. Al fine di migliorare le competenze degli chef stranieri all’estero sulla cucina giapponese, nell’aprile di quest’anno il ministero giapponese dell’Agricoltura e della Pesca ha istituito il “Sistema di certificazione in arti culinarie giapponesi all’estero”. È mia intenzione far sì che tale sistema venga divulgato anche in Italia».
Perché non introdurre un certificato di qualità per aiutare i clienti italiani a scegliere i migliori ristoranti di sushi?
«Le preferenze dei consumatori locali differiscono a seconda del Paese. Non è appropriato che si crei un sistema generale che valuti la qualità di un ristorante di sushi. Si potrebbero invece fornire indicazioni sullo chef. Il cliente ha il diritto di sapere se chi lavora in un determinato ristorante è adeguatamente preparato oppure no. Inoltre, dall’aprile di quest’anno, è stato istituito un sistema che, tramite un logo, certifica gli esercenti esteri che utilizzano o vendono generi alimentari di provenienza giapponese».
Quali sono le regole per riconoscere un sushi di qualità?
«Nei ristoranti in cui lo chef è giapponese, la possibilità che il sushi sia effettivamente preparato secondo la tecnica originale è molto alta. Inoltre, chiedere consiglio ad amici giapponesi può essere un altro modo per discernere. Spesso in alcuni ristoranti cinesi in Italia è presente il sushi a buffet. Ma questo è uno stile che in Giappone non esiste».
La Stampa – 22 ottobre 2016