Spuntano il riferimento alla parità di genere e l’attribuzione alla legge statale del compito di fissare costi e fabbisogni standard. Qualche anno fa era «l’albero storto», per dirla alla Giulio Tremonti. Ora è diventato «l’obbrobio», per ripetere l’espressione di Nunzia De Girolamo. Fatto sta che, dopo l’ok della Camera al Ddl Boschi, il cattivo federalismo all’italiana è un po’ più vicino al pensionamento.
Grazie alla riscrittura del titolo V che è contenuta al suo interno e che è rimasta sostanzialmente stabile nell’andirivieni del testo tra Palazzo Madama e Montecitorio.
Durante il secondo giro parlamentare terminato ieri il blocco di articoli compresi tra il 114 e il 133 della Costituzione ha subito infatti pochissime modifiche. Se non fosse per l’inserimento della parità di genere nella carta fondamentale, per l’attribuzione alla legge statale della fissazione di costi e fabbisogni standard e per lo spostamento di due-tre materie da una lettera all’altra del “nuovo” 117, si potrebbe dire che quell’insieme di norme è rimasto pressoché immutato rispetto al Ddl originario. Un po’ perchè i binari sui quali fare correre il nuovo titolo V erano già stati indicati due anni fa dai saggi nominati dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, un po’ perché il tasso di litigiosità nel governo e in Parlamento su questo tema è sempre stato ridotto.
A ogni modo, il cuore del restyling resta l’addio alle materie concorrenti che tanti guasti hanno provocato dal 2001 a oggi. Sia in termini di duplicazioni dei costi (e delle strutture) che in fatto di ricorsi dinanzi alla Consulta. L’articolo 117 che esce dalla Camera conferma il ritorno allo Stato di un nucleo di materie considerate “core” per la tenuta, da un lato, e lo sviluppo, dall’altro, del Paese: reti, infrastrutture, energia, comunicazione e professioni. Precisando al tempo stesso quali funzioni saranno di competenza esclusiva delle Regioni senza limitarsi ad affidare ai governatori tutto il resto come fa il 117 attualmente in vigore.
L’obiettivo esplicito dell’esecutivo è che un sistema così congegnato ridimensioni il rischio di litigiosità tra centro e periferia. Senza tuttavia azzerarli visto che in alcuni casi la formulazione adottata rischia di replicare il “copione” prodotto dalle vecchie competenze concorrenti. Si pensi all’ambiente che, preso nel suo insieme, diventa statale ma vede la «promozione dei beni ambientali» rimanere regionale.
Tra le altre conferme rispetto al disegno già adottato a Palazzo Madama va poi citata la clausola di supremazia che il livello centrale può adottare intervenendo in ambiti che non sono di sua competenza «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Una previsione che si somma a quella contenuta nell’articolo 120 sul potere sostitutivo dello Stato rispetto a Regioni ed enti locali ad esempio nella fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Una facoltà che esiste già oggi, pur non essendo stato esercitata quasi mai, e che viene subordinata al parere preventivo del Senato.
Un accenno lo meritano infine le province. Che, in teoria, scompaiono dalla Costituzione mentre, in pratica, ricompaiono nelle disposizioni transitorie nelle mutate vesti degli «enti di area vasta». Attraverso la duplice precisazione che i profili ordinamentali generali spettano alla normativa statale mentre quelli di dettaglio alle disposizioni regionali.
Il Sole 24 Ore – 11 marzo 2015