Nicola Pinna. La prova del disastro, Francesco Carboni, l’ha conservata in freezer: «Questa è la testa di uno dei miei agnelli con i denti giganti, morti di stenti a tre anni dalla nascita. Prima o poi la porterò in tribunale, per far vedere a un giudice come sono stati sterminati i nostri animali. Io ne ho persi almeno 600». A tutte le pecore nate e cresciute in questa zona della Sardegna è toccata più o meno la stessa sorte: malformazioni, pochissima produzione di latte e poi la morte. Per i veterinari della Asl un mistero non c’è: a uccidere gli ovini che pascolano nella grande piana intorno a Cagliari è una malattia. La fluorosi. Sulle cause i pastori avevano già da tempo le idee chiare, ma ora è tutto scritto negli atti di un’indagine del Corpo forestale che ha già portato a 7 arresti.
Il gigante di ferro
Tra i campi e gli stagni c’è l’unica fabbrica d’Europa che estrae e lavora la fluorite. Dall’impianto e dalle discariche dei materiali di risulta, si è levato per tanti anni un polverone bianco che ha contaminato tutto. Colture e pascoli. Ma molto altro, a occhio nudo, non si può vedere. Nel canale che costeggia le ciminiere, e che sfocia nell’oasi faunistica di Santa Gilla, sono finiti veleni di ogni genere e nei campi tutt’intorno sono sotterrati quintali di rifiuti dannosissimi. C’è persino traccia del micidiale “fluorosilicato”, sostanza capace di provocare la morte all’istante. «Noi questa polvere schifosa la respiriamo da anni. E andiamo a letto con gli occhi in fiamme», dice Antonio Fenu, un anziano pastore che tutte le mattine scorta un piccolo gregge nelle campagne di Assemini.
I fenicotteri, nel frattempo, sono quasi tutti scappati, per loro il rifugio sicuro è il paradiso di Molentargius, a due passi dal Poetto. I pescatori, invece, rischiano di non vendere più le cozze e le vongole e molti contadini hanno già smantellato le loro serre. Era una zona fertile e sempre verde, questa fetta di Campidano, ma dopo 50 anni di industrializzazione pesante le tracce della contaminazione cominciano a venir fuori. Le immagini dei satelliti mostrano una grande chiazza bianca al centro della zona industriale di Macchiareddu, ma il peggio è sottoterra. Per verificarlo bastano quattro passi tra i pochi eucaliptus superstiti. La vegetazione non cresce più e in uno scenario lunare spuntano strane pietre che luccicano al sole: «Questi – spiegano gli investigatori della Forestale – sono i resti solidificati delle lavorazioni industriali sepolti tra gli alberi». «La situazione è molto grave, ma Fluorsid non è l’unica responsabile del grave inquinamento della zona – precisa Vincenzo Tiana di Legambiente -Accanto allo stagno, per dirne una, c’è ancora una discarica di 180 ettari di fanghi tossici portati qui dal Sulcis negli anni Ottanta».
I biologi dell’Arpas ora si concentrano sullo stagno di Santa Gilla: prelevano campioni d’acqua e di fango, ma lo stesso ente regionale nel 2014 aveva confuso le polveri di fluorite che invadevano campagne e centri abitati con fantomatiche polveri del Sahara spinte dal vento fino in Sardegna.
Il tracollo
In attesa delle analisi, il presidente del Consorzio dei 200 pescatori,Emanuele Orsatti, ha la sua certezza: «I nostri prodotti sono di ottima qualità, li facciamo controllare con la massima attenzione. Eppure non riusciamo più a vendere i molluschi: il calo sfiora già il 90 per cento». Le discariche clandestine, secondo il Corpo forestale, sono quattro e vaste almeno 16 ettari. Ma definire i confini della contaminazione è quasi impossibile.«Nelle campagne sono stati sotterrati fluorsilicati, fanghi acidi, amianto, oli, rifiuti di varia natura – si legge nelle carte delle indagini – Ed è stato accertato lo sversamento di sostanze ancor più velenose, come la criolite e il cloruro». L’inquinamento qui era una precisa strategia per risparmiare. Il Gip che ha ordinato gli arresti, lo dice senza giri di parole: «Le scelte aziendali erano orientate a far prevalere il profitto a discapito dell’ambiente». E i nove indagati per il disastro ambientale se lo ripetevano come un monito, anche quando erano intercettati: «Qui se pensi all’ambiente non fai produzione».
E a furia di produrre si è provocato il disastro. Riccardo Carboni aveva le sue serre a due passi dalla montagna bianca di Terrasili, una zona in cui sono state accumulate decine di tonnellate di scarti di lavorazione. «Col vento i campi e gli ortaggi sono ricoperti da questa sostanza luccicante. Le mie verdure finivano sul mercato con alcune foglie bruciate, i committenti non le hanno volute. Ora è tutto fermo». Salvatore Pireddu e il fratello Fedele continuano ad allevare e a mungere più di 900 pecore nei terreni accanto: «Le pecore sono malate ma il latte non è avvelenato».
La Stampa – 5 giugno 2017