L’apertura del ministro del Lavoro Elsa Fornero verso un possibile ritocco delle nuove regole sul lavoro a termine (si veda anche «Il Sole 24 Ore» di ieri) costituisce un primo segnale di attenzione alle istanze che in questi mesi sono giunte con forza dal mondo del lavoro.
Se è vero che qualsiasi riforma necessita di un periodo di sperimentazione prima di poter essere valutata in maniera completa e approfondita, è altrettanto vero che nella legge 92/2012, di riforma del mercato del lavoro, ci sono norme che hanno immediatamente creato una crisi di rigetto da parte degli operatori, la quale non può essere ignorata da chi governa e legifera.
I vecchi contratti a termine
La regola della riforma che più di tutte è finita sul banco degli imputati è quella del cosiddetto stop and go dei contratti a termine.
La vecchia normativa consentiva di prorogare una sola volta il contratto a termine; una volta scaduta la proroga, un nuovo contratto poteva essere stipulato tra le stesse parti soltanto dopo aver atteso almeno dieci giorni (che diventavano venti, se il rapporto precedente aveva avuto durata non superiore a sei mesi).
In ogni caso, la durata massima dei diversi periodi di lavoro svolti con contratto a termine, con la stessa impresa e per le stesse mansioni, non poteva eccedere i 36 mesi (o la maggior durata prevista dai contratti collettivi).
La novità
Con la legge di riforma del mercato del lavoro, la 92/2012, la gestione della fase di rinnovo del contratto a termine diventa quasi impossibile. Infatti, viene confermata la regola sulle proroghe (massimo una) mentre il periodo di attesa obbligatoria tra un contratto e l’altro sale da 10 a 60 giorni (addirittura da 20 a 90, quando il primo contratto ha superato i 6 mesi).
Non solo. Nel computo dei 36 mesi di durata massima devono essere calcolati anche i periodi svolti mediante contatto di somministrazione (che però sfugge alla regola dello stop and go).
Il mercato del lavoro, come si diceva, ha reagito male a queste innovazioni: da parte loro, le aziende hanno gestito il problema adottando una turnazione più intensa dei lavoratori flessibili, oppure passando ad altre tipologie contrattuali, alcune valide sul piano qualitatitivo (la somministrazione di lavoro) altre molto meno regolari e sicure del contratto a termine.
In questa situazione, inoltre, i lavoratori a termine sono stati penalizzati o, al massimo, non hanno migliorato le proprie prospettive di carriera.
Né i correttivi apportati la scorsa estate (quando è stata introdotta, con il decreto sviluppo, la facoltà per i contratti collettivi di qualsiasi livello di ridurre a 20 o 30 giorni il periodo di intervallo) sono risultati sufficienti a gestire il problema.
Ritorno al passato
Se il ministro del lavoro, come annunciato, vorrà tornare sul tema, potrebbe essere sufficiente ripristinare la vecchia disciplina, che non si prestava ad alcun abuso in quanto, comunque, il limite di durata massima di 36 mesi già impediva una situazione di flessibilità troppo prolungata nel tempo.
Se poi il ministro Fornero volesse allargare l’orizzonte e affrontare gli altri nodi tecnici che presenta la riforma, potrebbe intervenire, per esempio, sulla norma che include nei 36 mesi di durata massima anche la somministrazione.
Il mezzo per intervenire
Sarebbe importante che il ministero del Lavoro sfuggisse alla tentazione di cambiare il senso delle norme appena approvate ricorrendo a semplici circolari.
Questi atti hanno un’efficacia troppo limitatata e quindi, nel migliore dei casi non aggiungono nulla (se interpretano bene la legge), ma possono anche arrecare danno (se interpretano male la legge, inducono le imprese e gli operatori a fare scelte destinate ad essere travolte davanti a un giudice).
Ilsole24ore.com – 13 ottobre 2012