Il governo pensa di ammorbidire alcuni vincoli sull’utilizzo dei contratti a tempo determinato. I risultati di una ricerca suggeriscono che nuove regole, in particolare sulla causale, ne allungherebbero solo la durata, senza creare nuova occupazione.
Le regole per i contratti a termine
Il decreto “Dignità” – approvato nell’estate 2018 dal governo Conte I – ha introdotto una serie di provvedimenti volti a scoraggiare l’utilizzo dei contratti a tempo determinato per relazioni lavorative prolungate. Da un lato, è intervenuto sui tetti di utilizzo, riducendo la durata massima dei contratti a termine da 36 a 24 mesi, mentre il numero massimo di proroghe contrattuali è stato portato da cinque a quattro. Dall’altro, ha previsto costi pecuniari e regolamentari per i contratti a tempo determinato più lunghi: un aumento dello 0,5 per cento nella contribuzione a carico del datore per ogni rinnovo e l’introduzione di una causale esplicita per giustificarne l’utilizzo in relazioni lavorative di durata superiore a un anno (e per ogni rinnovo).
L’attuale governo pensa alla possibilità di ri-ammorbidire alcuni dei vincoli. L’obiettivo principale sembra essere la causale, di cui si vorrebbe “ritardare” l’entrata in vigore rispetto all’inizio del contratto, limitandone quindi il campo di azione: sarebbe necessaria non più dopo un anno, come da decreto Dignità, ma dopo due, con la possibilità di modificare il limite in sede di contrattazione collettiva.
Tre messaggi chiave dalla riforma del 2018
In un progetto di ricerca in corso analizziamo gli effetti del decreto “Dignità” sui flussi lavorativi delle imprese del Veneto, utilizzando la base dati Mercurio fornita da VenetoLavoro. I messaggi principali che emergono dalle nostre analisi sono tre, e possono essere utili a ragionare sugli effetti occupazionali di un potenziale intervento legislativo di riforma.
1.La causale è percepita come un costo rilevante da parte delle imprese. Secondo le nostre analisi, lo “spostamento” del limite di entrata in vigore della causale comporterebbe un aumento marcato e generalizzato della durata dei contratti a tempo determinato. Come mostra la figura 1, dopo l’introduzione del decreto “Dignità” la quota di contratti con una durata di oltre un anno al momento della firma è diminuita notevolmente, se si considera la durata effettiva del contratto (ossia proroghe incluse). Le relazioni a tempo di durata superiore a un anno sono infatti praticamente scomparse a partire da luglio 2018. Al contempo, si osserva un aumento evidente nella quota di due categorie di contratti: quelli appena sotto un anno, a indicare la rilevanza della causale, e quelli di durata inferiore a un mese, presumibilmente utilizzati per soddisfare la domanda residua di lavoro causata dall’assenza di contratti più prolungati.
Figura 1 – Distribuzione della durata dei contratti a tempo determinato
In altre parole, le imprese hanno di fatto rinunciato all’utilizzo di contratti a tempo determinato di durata superiore a un anno. Ma cosa ne è stato della domanda di lavoro che veniva soddisfatta da questi contratti?
2. Un cambio nella regolamentazione genera principalmente una sostituzione tra contratti, con variazioni limitate nella domanda totale di lavoro. I contratti a tempo determinato di più lunga durata sono quelli che hanno una maggiore probabilità di conversione in tempo indeterminato. L’effetto della re-introduzione della causale allo scadere dei dodici mesi prevista dal decreto “Dignità” è stato duplice:
a. anticipo delle trasformazioni contrattuali, con tempi medi più bassi soprattutto per i determinati iniziati pre-riforma;
b. sostituzione con tempo indeterminato, il cui utilizzo “diretto” (ossia senza la presenza precedente di un contratto a termine) è cresciuto dopo la riforma.
Entrambi gli effetti si notano chiaramente nella figura 2, dove i coefficienti riportati rappresentano la differenza media nelle assunzioni mensili a tempo indeterminato tra imprese esposte e non esposte al decreto “Dignità” (definiamo come “esposte” le imprese che hanno utilizzato almeno un contratto a tempo determinato nel quinquennio 2012-2016). A partire da luglio 2018, e ancor più chiaramente dal 1° novembre – data che estese l’applicabilità del decreto anche a proroghe e rinnovi di contratti iniziati prima del luglio 2018 – nelle imprese “esposte” alla riforma sono cresciute sia le trasformazioni da determinato a indeterminato che le assunzioni dirette tramite indeterminato.
Figura 2 – Differenza nei flussi lordi mensili – Imprese che fanno ricorso ai contratti a tempo determinato vs imprese che non li utilizzano
È dunque probabile che un eventuale “spostamento” del limite di entrata in vigore della causale comporti un aumento del tempo medio di conversione e un maggiore ri-utilizzo del determinato di lunga durata. Sulla base delle nostre analisi, è molto difficile credere che vi sia un effetto positivo di portata consistente sulla domanda di lavoro, e dunque sull’occupazione totale.
3. L’effetto è eterogeneo tra gruppi di imprese. I nostri risultati mostrano che le imprese più grandi e più produttive tendono a ricorrere meno al tempo determinato, e offrono in media contratti a tempo determinato di durata più lunga e con una più alta probabilità di trasformazione. È dunque naturale pensare che sia questa la platea di aziende più interessata dal nuovo intervento legislativo. Vi è anche un discorso settoriale: i determinati di lunga durata sono più concentrati nella manifattura, mentre le durate medie sono inferiori nel terziario (soprattutto nei comparti a basso valore aggiunto), dove pertanto ci si può attendere una reazione meno accentuata a eventuali cambiamenti.
In sintesi, riteniamo che le possibili mosse del governo sul tema della causale ridurrebbero le tutele per i lavoratori coinvolti, che vedrebbero estendersi la durata dei contratti a termine, senza facilitare la creazione di nuova occupazione.
Lavoce.info