Una corsa lunga dieci anni. Tra crisi economica e debito pubblico il gettito delle tante tasse d’Italia continua a crescere. A volte con aumenti che sfiorano il 100 per cento.
Per dire: se nel 2003 i Comuni incassavano 1,8 miliardi dall’addizionale Irpef, nel 2012 si è arrivati a 3,2 miliardi. Certo, ci sono anche alcuni casi in cui il gettito diminuisce. Ma il calo dipende per lo più dalla contrazione dei consumi delle famiglie o dal crollo del giro d’affari delle imprese.
Tra crisi e rincari
«Il Sole 24 Ore del lunedì» ha analizzato il gettito dei principali tributi erariali e locali – cioè gli importi dovuti dai contribuenti per ogni anno – rapportando tutte le cifre al 2012, così da neutralizzare l’effetto dell’inflazione.
L’aumento maggiore è quello delle imposte sul possesso degli immobili: dall’Ici di dieci anni fa all’Imu del 2012, il rincaro è dell’80 per cento. E sarebbe ancora più elevato se si prendesse come base di calcolo uno degli anni tra il 2008 e il 2011, in cui la prima casa era esente.
I tributi sulla proprietà immobiliare, però, sono i più facili da analizzare, perché il gettito riflette fedelmente l’andamento della pressione fiscale. Labaseimponibile, infatti, è rimasta ancorata alle rendite catastali che fotografano ancora il mercato del 1988-’89 e che il Governo Monti ha solo rivalutato in modo lineare.
Negli altri casi, invece, il discorso è più complesso e l’andamento del gettito tira in ballo almeno altri tre fattori. e Regole fiscali. L’ipotesi più semplice è quella di un tributo che frutta di più allo Stato perché l’aliquota è aumentata. È il caso di tante imposte locali, dall’Ici-Imu, alle addizionali Irpef comunali e regionali. Anche perché il federalismo all’italiana si è tradotto in un mix diabolico di tagli dei trasferimenti statali agli enti locali abbinato alla possibilità di aumentare il prelievo per Comuni e Regioni.
In poche situazioni-limite vale la regola inversa: il gettito è diminuito perché si allenta la pressione fiscale o diminuisce la platea dei contribuenti. Accade ad esempio per l’Irap, da cui sono stati esonerati sempre più autonomi e mini-imprese. Ma qui il calo degli incassi dipende anche dalla crisi. E comunque la diminuzione del gettito non basta ad attenuare la sproporzione di un tributo che costituisce un unicum internazionale e grava per oltre 34 miliardi l’anno sulla competitività del sistema-Paese. r Andamento dell’economia. In tempi di recessione, il gettito può diminuire – generando l’illusione ottica di uno sconto d’imposta – anche se le aliquote restano invariate o aumentano.
L’esempio classico è quello dell’imposta di registro, appena ritoccata per il 2014 dal decreto scuola (Dl 104/2013). Qui si vedono chiaramente gli effetti del crollo del mercato immobiliare, passato dalle 845mila compravendite di abitazioni del 2006 alle 444mila dell’anno scorso.
Male ricadute della crisi si fanno sentire soprattutto sui tributi che colpiscono benzina, tabacchi, alcolici e giochi. Senza dimenticare l’Iva, il cui gettito è addirittura diminuito nonostante l’aumento dell’aliquota ordinaria dal 20 al 21% entrato in vigore il 17 settembre 2011. Un fenomenosu cui riflettere in vista del rincaro al 22% che scatterà il prossimo 1?ottobre in assenza di provvedimenti contrari del Governo: il rischio, insomma, è di deprimere l’economia senza incassare quanto preventivato a tavolino. t Peso dell’evasione. Il terzo fattore che può influenzare l’andamento del gettito è il recupero di redditi sommersi o il peggioramento dell’evasione fiscale. Due elementi che, nel bene e nel male, sembrano aver pesato meno dell’andamento generale dell’economia (si veda Il Sole 24 Ore dell’8 aprile scorso).
Nessuna strategia
La ricostruzione degli ultimi dieci anni dimostra che l’Italia ha aumentato la pressione fiscale su quasi tutti i fattori produttivi, senza un vero disegno strategico complessivo.
Anzi, l’ambizioso obiettivo di spostare la tassazione dalle persone alle cose è stato soppiantato dall’esigenza di raccogliere – con le tasse – le risorse necessarie a far quadrare il bilancio dello Stato e a sostenere la spesa pubblica, in eterna attesa di una vera spending review.
Resta all’Italia la maglia nera del cuneo fiscale. Un macigno sul costo del lavoro italiano
L’impennata delle tasse rappresenta un pericoloso freno alla crescita. Pressione fiscale e contributiva continua ad essere un macigno sul costo del lavoro italiano. Il nostro paese è tra i peggiori (al sestultimo posto) nel ranking Ocse, con un cuneo pari al 47,6% nel 2012 per un single senza figli, rispetto a una media generale del 35,6 per cento. E si arriva addirittura al 53,4%, considerando anche gli oneri legati a Irap, Tfr e Inail, come calcolato da Confindustria.
Un trend in peggioramento nell’arco di dieci anni: tra il 2002 e il 2012 il cuneo italiano è salito dell’1%, mentre l’Ocse ha registrato una flessione complessiva dello 0,9 per cento.
La priorità
Tagliare il costo del lavoro, dunque, è una priorità – riconosciuta da tutti – per rilanciare l’economia e soprattutto creare occupazione. Imprese e sindacati sono in pressing: nel documento presentato a inizio mese si ipotizzano detrazioni per i lavoratori, che avrebbero così più reddito da destinare ai consumi, e l’eliminazione della componente lavoro dall’imponibile Irap, favorendo le aziende che assumono. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha evidenziato la scorsa settimana che servirebbero quattro-cinque miliardi da mettere sul piatto subito per ridurre il cuneo fiscale con l’obiettivo di recuperare 9-10 punti di competitività, attraverso la decontribuzione o con la defiscalizzazione.
Proprio quello delle risorse è il nodo da sciogliere a meno di un mese dal termine ultimo per il varo della legge di stabilità, che deve essere presentata in Parlamento e a Bruxelles entro il 15 ottobre, senza contare il clima di incertezza legato alla vicenda che riguarda il leader del Pdl, Silvio Berlusconi. Il premier Enrico Letta continua a ripetere che la «priorità è il taglio del costo del lavoro», ma il puzzle ha molte tessere da sistemare e di non facile incastro, a partire dalla ricerca dei fondi per coprire l’abolizione della seconda rata dell’Imu (2,4 miliardi) e di quelli per scongiurare l’aumento di un punto percentuale dell’Iva (per slittarlo dal prossimo 1? ottobre al 1? gennaio 2014 servirebbe un miliardo di euro). Senza contare che per coprire cassa integrazione e mobilità in deroga fino a dicembre servirebbe un’iniezione di 4-500 milioni. Tutti nodi che si riproporranno per il 2014.
Così, l’intervento sul cuneo fiscale potrebbe essere spalmato su più anni. «Con le risorse a disposizione – ha detto il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini – non si potrà fare tutto nel 2014». L’obiettivo è evitare misure generiche che avrebbero solo un impatto soft sull’economia.
Due linee d’azione
La prima limatura dovrebbe partire dai premi pagati all’Inail (si veda Il Sole 24 Ore dell’8 settembre), visto che ci sono margini per alleggerire il peso di quelli più alti versati per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, grazie agli avanzi finanziari realizzati dall’Istituto (1,2-1,4 miliardi l’anno).
Un altro possibile fronte di intervento è quello dei contributi sociali non previdenziali (malattia, maternità, ammortizzatori sociali, eccetera) che per le aziende industriali con più di 15 addetti arrivano a pesare quasi il 9%: tra le ipotesi allo studio ci sono la parziale fiscalizzazione di questi versamenti e l’armonizzazione delle aliquote contributive. Ma potrebbe anche scattare l’esclusione dall’Irap dei nuovi contratti.
Il cantiere è aperto e i dettagli tecnici sono allo studio dei ministeri di lavoro e Finanze: «Stiamo prendendo in considerazione tutte le ipotesi – ha spiegato Giovannini – anche se non vuol dire una riduzione di aliquote generalizzata a tutti i casi».
Il Sole 24 Ore – 16 settembre 2013