Una montagna di massi neri scivola ancora dentro un torrente di fango marrone. Sopra, la prima neve copre di bianco i costoni franati che salgono verso la Marmolada. Sei mucche vagano, cercano invano erba tra i sassi. Muggiscono per chiedere aiuto: non si sa di chi sono, fuggite dalle recinzioni senza più corrente elettrica. Un vitello è ancora lì, sullo sterrato ridotto al letto di un fiume, schiacciato sotto un abete spezzato dal vento. I Serrai di Sottoguda, che per quattro chilometri salivano da Rocca Pietore a Malga Ciapela seguendo un canyon fantastico, non esistono più, come la Val Visdende nel Comelico. I pendii delle Dolomiti bellunesi sembrano sacchi gonfi rosicchiati dai topi. Un boccone di prato manca qua, una fetta di foresta è scomparsa là. Sotto lo pioggia si incontrano solo maschi: barcollano sudati nel primo gelo, impugnano la motosega, un piccone, l’accetta e ripetono: «Stavolta è finita». Indicano un comignolo storto, la lamiera di un tetto volata su un larice, la valvola bianca della linea elettrica che tra la nebbia spunta da una spianata di melma, attorno al camping: sotto, invisibili, ci sono le case. «Se cerchi morti — dice Toni Sorarù, operaio alla funivia che sale al ghiacciaio — qui non li trovi. In montagna la gente non può più vivere, nei paesi restano solo fantasmi. Per questo il disastro non ha trovato le vittime che cercava: i pochi che c’erano e che sono vivi così vengono pure ignorati.
Continuiamo a non esistere, come sempre».
Dopo cinque giorni di pioggia mai vista e di bufera senza precedenti, Rocca Pietore resta isolata.
Migliaia di abeti e di larici sono ammassati sulle strade che scendono a Caprile, o verso Livinallongo, come tronchi già in segheria. L’acquedotto, che seguiva le curve dei Serrai, è stato spezzato e trascinato a valle dalle frane. I pali della luce sono spariti.
Solo su un tornante, sopra il paese, prende il cellulare: donne in giaccavento e pantofole non si muovono da qui, telefonano a figli e genitori, comunicano che «ci siamo ancora». Il resto della gente è attorno all’autobotte dei pompieri: massimo dieci litri d’acqua per ogni famiglia. Per fortuna ci sono stufe e fornelli: ci si scalda e si cucina con il fuoco, il blackout rende inutili impianti e gas. La luce finisce appena sale la notte: senza gasolio, esaurito, i generatori tacciono e si fermano.
Sembra incredibile: a una settimana dall’inizio dell’apocalisse, nel Nordest che nuota negli “schéi” e nel cuore dell’impero fondato sul turismo, i paesi nascosti tra le Dolomiti restano isolati dal mondo, privi dell’essenziale «per tirare avanti», sommersi dalle loro montagne, corrosi da una rabbia antica che il ciclone è tornato a giustificare.
«Non ci resta niente — dice il sindaco Andrea De Bernardin — e siamo sulla porta dell’inverno. Se non aggiustiamo acquedotto e linea elettrica devo evacuare 700 persone. Per tre giorni ho chiesto aiuto invano. Ho fatto 300 chilometri tra le frane e sotto le piante che schiantavano, su e giù da Cencenighe per telefonare dal bar. Intanto la tivù parlava degli yacht rovinati a Rapallo».
Rocca Pietore, con le sue 27 frazioni non ancora raggiunte, è la punta dell’iceberg che nel Bellunese naviga in un devastato deserto. Il grosso è sotto e attorno, dentro tutte le Dolomiti che hanno cambiato profilo per sempre: nell’Agordino e nel Cadore, nel Comelico e nell’Alpago, in Trentino e in Alto Adige, sull’altopiano di Asiago e tra le faggete del Cansiglio, a Sappada e nella Carnia friulana. L’acqua, che non smette di cadere, ha sciolto la terra, fatto scoppiare i fiumi e sgretolato la roccia. Il vento, fino a 190 chilometri all’ora, in quattro ore ha fatto esplodere milioni di alberi. «Piante da 30-40 metri, molte secolari — dice Giuseppe Donà, boscaiolo di Alleghe — le vedevamo volare nel buio, tra sibili da aereo. Come prima non torniamo più, ma il problema è trovare il coraggio di restare ancora. È stato come un terremoto e adesso sappiamo che può ricominciare».
Anche a Cibiana, sotto l’irraggiungibile monte Rite, l’ossessione è «trovare acqua potabile e un generatore». Cumuli di ghiaia hanno inghiottito la bottega di generi misti. A Cortina d’Ampezzo gli ultimi generatori da 3 kilowatt vengono venduti tra 660 e 1050 euro. «Comunque poi non sappiamo come alimentarli — dice Giocondo Dalle Feste, sindaco di Gosaldo — e le riserve in frigo ormai sono da buttare. Non ci si rende ancora conto che l’emergenza non sono cellulari scarichi e computer spenti. È una catastrofe: le frane non si fermano e le strade possono cedere in ogni punto, come le case». Ancora 10mila le famiglie senza luce, 30 le strade interrotte. I danni accertati, nel Nordest, superano i 2 miliardi.
A rischio, nell’area del Civetta, la stagione invernale dello sci: molti gli impianti minacciati dalle frane, i piloni di alcuni affondano su crinali instabili, gli alberi abbattuti invadono le piste. Sacrificato anche il Garda: per salvare Verona dall’alluvione il fiume, attraverso la galleria Mori-Torbole, ha scaricato limo, tronchi e detriti nel lago. Dalla foce, nel Polesine, emergono invece montagne di rifiuti e la magistratura indaga su residui tossici industriali, che qualcuno ha smaltito approfittando dell’emergenza. Il capo della Protezione civile Angelo Borrelli ha inviato qui duemila uomini. «Senza di loro — dice Alessandra Buzzi, sindaco di Santo Stefano di Cadore — avremmo ceduto. Adesso però non abbandonateci». A tutti, senza più niente, sulle montagne sconvolte tra Livinallongo e Rocca Pietore, nel buio gonfio di pioggia fredda resta solo la paura. Lo dicono, con semplicità: «Abbiamo paura, anche di ogni rumore». Ripetono: «Non abbandonateci». Ma non credono che succederà.
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