di Gianni Trovati. La «valutazione delle performance» e la «meritocrazia», che secondo la riforma Brunetta del 2009 avrebbero dovuto premiare i «migliori» e incentivare produttività e responsabilità, sono durate lo spazio di un mattino, travolte dalla crisi economica e dai match fra lo stesso Brunetta e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti che congelò gli stipendi proprio quando le pagelle di merito avrebbero dovuto produrre i primi effetti.
Dopo quell’esperienza, è naturale che i dirigenti pubblici abbiano cominciato a cedere alla sfiducia, alimentata dalla distanza che continua a separare le parole d’ordine di politici e analisti dalla realtà quotidiana dei loro uffici. Quelli fotografati oggi dalla nuova edizione dell’indagine annuale sulla «Pubblica amministrazione vista da chi la dirige», che la fondazione PromoPa presenterà domani al dipartimento della Funzione pubblica con il ministro Maria Anna Madia e i vertici amministrativi di Palazzo Vidoni, sono dirigenti scettici. Adirlo non è solo la flessione netta (dal 49,4 del 2013 al 46,3 del 2014, con un calo del 6,3% in un solo anno) dell’«indice di fiducia», cioè l’indicatore che sintetizza il sentiment emerso dalle risposte dei dirigenti alle varie domande poste dall’indagine: significativo, e piuttosto freddo, è l’atteggiamento nei confronti dei capitoli chiave della nuova riforma, scritta nella legge delega che sta avviando il proprio percorso al Senato incrociandosi con la legge elettorale.
Il nervo scoperto è quello del rapporto con la politica, alla ricerca di un’autonomia promessa fin dall’epoca delle leggi Bassanini ma mai davvero raggiunta. Sul punto, i pericoli maggiori arrivano oggi dal progetto di licenziabilità (cioè di decadenza dal futuro ruolo unico) dei dirigenti che rimarranno senza incarico per più di un determinato periodo di tempo, da definire nei decreti attuativi. Una mossa del genere, secondo tre intervistati su quattro, finirà per aumentare la dipendenza dalla politica, nel timore che a uscire dal “mercato degli incarichi” previsto dal nuovo sistema siano soprattutto i dirigenti considerati scomodi da chi deve sceglierli.
Lo stesso ruolo unico, che secondo la legge delega dovrà essere il cardine della dirigenza riformata, secondo la maggioranza degli interessati non permetterà «una reale mobilità tra le amministrazioni, con la rotazione degli incarichi», e non sarà efficace nel tentativo di «mettere ordine alle retribuzioni»: su quest’ultimo punto, del resto, scottano ancora i tetti agli stipendi introdotti da Mario Monti e abbassati da Matteo Renzi a quota 240mila euro («allontanerà i migliori dalle Pa», prevede il 73,5% degli interessati).
«Si può dire – ragiona Gaetano Scognamiglio, presidente di PromoPa – che la burocrazia rimane schiacciata sotto il proprio peso, come dimostra l’opinione quasi unanime, emersa nell’indagine, che le riforme siano illusorie se non si modifica il contesto, operando a monte su una legislazione ipertrofica, contraddittoria e ormai incomprensibile». Su questa linea si collocano i giudizi sugli obblighi di trasparenza esui decreti anti-corruzione, che secondo i dirigenti «contribuiscono a privilegiare comportamenti formalistici per cautelarsi» invece di «favorire la diffusione di una cultura della legalità sostanziale». Certo, non tutte le note suonate dall’indagine sono dolenti, il giudizio migliora quando si guarda alle innovazioni reali come la fattura elettronica, e la richiesta di procedere in questa direzione è netta. Ma tocca alla politica, ora, cambiare il clima negli uffici di vertice delle amministrazioni: con una dirigenza fredda e sfiduciata, infatti, non c’è riforma che possa avere successo.
Il Sole 24 Ore – 15 settembre 2014