Pressing politico della sinistra per smontare il Jobs act. Ma il governo non intende fare passi indietro; Matteo Renzi chiude a possibili stravolgimenti delle riforme firmate da Giuliano Poletti; e anche palazzo Chigi esclude la presentazione di emendamenti specifici da inserire nella legge di Bilancio. I ragionamenti sul “capitolo lavoro” che si stanno abbozzando, in questi giorni, a livello tecnico e tra gli esponenti di governo sono essenzialmente limitati ad alcune specifiche questioni. In primo luogo, sui contratti a termine. Qui, la legge Fornero prima e poi il decreto Poletti, nel 2014, hanno condotto al superamento della causale, per giustificare la firma del rapporto a tempo, e al passaggio al sistema della percentuale massima di utilizzo (20%), sanzionando eventuali sforamenti non più con la stabilizzazione, ma con una sanzione amministrativa, dando così maggiore certezza a imprese e lavoratori, riducendo la discrezionalità dei giudici (e di conseguenza il contenzioso).
La misura sta funzionando: complice pure la fine degli sgravi generalizzati sui contratti a tempo indeterminato, i rapporti a termine stanno crescendo, anche se la percentuale dei lavoratori a termine rispetto al totale degli occupati dipendenti è rimasta sostanzialmente stabile, tra il 14 e il 15%, allineata al resto dell’Ue. Tuttavia, il tentativo di rilanciare il lavoro stabile, combinato all’obiettivo di frenare gli aumenti di quello precario, stanno spingendo una parte del governo a immaginare possibili aggiustamenti. L’idea che circola tra i tecnici è quella di ridurre da 36 a 24 mesi la durata massima dei contratti a termine “acasuali”. O, in alternativa, procedere a un ulteriore aggravio dei costi a carico delle imprese che utilizzano i rapporti a tempo. Oggi, infatti, i datori di lavoro pagano già un addendum dell’1,4%, introdotto dalla legge Fornero per finanziare l’indennità di disoccupazione. Si potrebbe salire al 2,4 per cento.
Al momento non ci sono norme in preparazione; e il veicolo della manovra è escluso: «Il Jobs act sta funzionando. Gli argomenti oggetto di discussione sono politici, seppur legittimi, ma non credo che troveranno spazio nella manovra in discussione in parlamento», evidenzia Marco Leonardi, a capo del team economico di palazzo Chigi.
Una parte della maggioranza preme anche per ritoccare la disciplina della cassa integrazione. Sul tavolo c’è la proposta di allungare di 12 mesi le durate dell’ammortizzatore sociale per tutte le imprese, non solo quelle a rilevanza strategica-nazionale o coinvolte nelle crisi industriali complesse (per queste situazioni già il Ddl di Bilancio prevede prolungamenti della Cigs). La deroga al Jobs act sul fronte Cig viene spiegata con la necessità di garantire un sussidio ponte nel 2018 in attesa dell’effettivo decollo delle politiche attive. L’intervento è tuttavia costoso; e bisognerà vedere se riuscirà o meno a trovare spazio in provvedimenti normativi.
Discorso a parte infine per l’articolo 18. Qui i margini di intervento per il governo sono ridotti a zero: la reintroduzione del reintegro generalizzato nel posto di lavoro a fronte di licenziamenti illegittimi non è mai stata presa in considerazione (la proposta di legge di Mdp-Si di riscrittura dello Statuto dei lavoratori, attesa domani in Aula alla Camera, sarà rispedita in commissione, sancendo lo stop definitivo). Pure il tema, più ristretto ma altrettanto delicato, degli indennizzi monetari (sempre in caso di licenziamenti illegittimi), oggetto di ragionamento, non è sul tavolo secondo quanto confermano dal Pd, alla luce della linea portata avanti da Piero Fassino negli incontri che sta svolgendo con i possibili alleati nel centro-sinistra.
L’indennizzo monetario per chi è assunto con il contratto a tutele crescenti oscilla da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità. «Su questo aspetto l’Italia è già allineata agli altri paesi Ue», evidenzia Arturo Maresca (diritto del lavoro, La Sapienza, Roma). Sulla stessa linea il giuslavorista Sandro Mainardi (università di Bologna), che aggiunge: «Un eventuale intervento sull’indennizzo minimo presenta profili di particolare delicatezza e deve essere attentamente calibrato, in quanto nel primo periodo il rischio è di disincentivare il ricorso al contratto a tutele crescenti, comunque stabile e a tempo indeterminato, a favore di altre tipologie contrattuali non stabili e a tempo definito». La conferma arriva anche dal senatore Pd Pietro Ichino (diritto del Lavoro alla Statale di Milano): «Sul tavolo delle trattative non ci sono abrogazioni della riforma del 2015 – sostiene -. La nuova disciplina dei licenziamenti, ha favorito un netto aumento dell’occupazione e non ha sicuramente causato la “precarizzazione” di cui parlano i suoi detrattori. Nel triennio i rapporti stabili sono aumentati più di quelli a termine; il tasso dei licenziamenti è rimasto stabile, fra l’1,3 e l’1,4% in rapporto ai contratti stabili. Il vero cambiamento consiste nel crollo del contenzioso giudiziale».
Il Sole 24 Ore – 19 novembre 2017