Il ministro Elsa Fornero vuole applicare nuove regole al mondo dei contratti di lavoro. Ecco il modello danese che il ministro vuole sperimentare in alcune regioni
Nel governo l’idea si sta facendo strada. Certo, dovrà superare il confronto con le parti sociali, e forse non verrà accolta tra gli applausi. Ma alcune Regioni si stanno già attrezzando per diventarne partner: di un progetto sperimentale su cui il governo sta ragionando, per applicare nuove regole al mondo del lavoro a quelle imprese che, volontariamente, diano la loro disponibilità alla sperimentazione. Si tratterebbe di mettere alla prova qualcosa di molto simile alla proposta di flexsecurity presentata dal senatore Pietro Ichino nel 2009, attraverso accordi quadro regionali: in Trentino è stato aperto un tavolo, ma dimostrano interesse anche Calabria, Veneto, Lombardia.
Ecco forse a cosa pensava il ministro Fornero (in ottimi rapporti col giuslavorista milanese, così come il premier Monti) quando ieri ha parlato di «flessibilità buona» da far pagare alle imprese. Perché nella proposta Ichino, la 1873 del 2009, il più volte evocato modello danese, tutti i lavoratori vengono subito assunti a tempo indeterminato, con un periodo di prova massimo di sei mesi, ma l’articolo 18 resta a proteggerli solo in caso di licenziamento discriminatorio: se invece avviene per motivi economici o organizzativi, il lavoratore riceve dall’impresa un indennizzo che cresce con l’anzianità di servizio (un mese per ogni anno di anzianità).
Poi però l’azienda stipula un contratto di ricollocazione col lavoratore e sostiene un trattamento complementare di disoccupazione che porti l’indennità al 90% dell’ultimo stipendio il primo anno (ma l’80% è già a carico dell’Inps), all’80% il secondo anno e al 70 il terzo anno, l’ultimo possibile. In questo modo, l’azienda si prevede che sarà incentivata a darsi da fare per trovare al più presto un nuovo posto di lavoro al suo ex dipendente, liberandosi dal trattamento di disoccupazione.
Flessibilità, quindi, e in cambio l’azienda si deve accollare il costo sociale del licenziamento. Anche secondo Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro a Modena, le parole del ministro Fornero tradiscono l’ispirazione al progetto di legge Ichino. Su cui però lui è scettico: «Un progetto irrealistico», lo definisce, «perché scritto a tavolino e non concordato tra imprese e lavoratori. Pensare di portare qui la Danimarca è ridicolo: è un Paese diverso, con una struttura geografica diversa… Tutt’al più si può pensare di esportarla a Trento, ecco. Altrimenti sarebbe come trapiantare a un uomo un cuore con un gruppo sanguigno differente, si rischiano di fare enormi danni». Piuttosto, secondo lui, in tema di flessibilità, una proposta potrebbe essere quella di ripristinare l’articolo 8 della manovra dell’estate scorsa: qualunque impresa può derogare a norme di legge mediante un accordo collettivo. Si potrebbe tentare quella strada, propone, per derogare temporaneamente in specifici casi l’articolo 18, senza abolirlo.
Anche Tito Boeri, docente di economia del lavoro alla Bocconi, ha la sua proposta per mettere in conto alle imprese la flessibilità per loro così preziosa.«Giustopagaredi più i lavoratori instabili, mentre normalmente oggi in Italia succede l’opposto», conviene. Come farlo? La sua idea è nero su bianco, la cosiddetta proposta BoeriGaribaldi: quando un lavoratore ha un rapporto con un unico committente, si fissa un livello retributivo minimo al di sotto del quale il rapporto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato. Per quanto riguarda le tutele, questo modello prevede che ci sia un aumento progressivo: un eventuale licenziamento può essere deciso solo entro i primi tre anni (corrispondendo un risarcimento pari a 5 giorni di paga per ogni mese di lavoro, fino a un massimo di sei mesi se si viene licenziati dopo tre anni), dopodiché scattano le garanzie attuali. Ancora, suggerisce Boeri, un altro strumento che sposti un po’ di più sulle spalle delle aziende il peso della flessibilità sarebbe aumentare i contributi assicurativi contro la disoccupazione per i lavoratori atipici, e anche quelli previdenziali, allineandoli a quelli delle altre tipologie di contratti. Lo stesso intervento individuato dal deputato Giuliano Cazzola, esperto del Pdl in tema di previdenza: portare anche i para subordinati al 33% come i dipendenti, anziché lasciarli attorno al 27%. E poi, un’altra proposta: «Si potrebbe pensare di introdurre nei contratti a termine una sorta di indennità di fine rapporto».
La Stampa – 6 febbraio 2012