Fatto uno: «Non fatemi litigare con Oscar Farinetti. Tutto quello che dice su biologico e necessità di un’etichettatura per difendere la produzione agricola italiana è sacrosanto». Carlin Petrini però, presidente di Slow Food, vuol mettere qualche «paletto indispensabile» — come lo chiama lui — alle provocazioni del patron di Eataly.
La difesa della qualità e il no al protezionismo ad oltranza non sono i soli temi sul tavolo «perché quello che è avvenuto negli ultimi anni nei confronti della classe contadina in questo Paese è impressionante». Il vero nemico del made in Italy «è la speculazione finanziaria che ha messo sotto schiaffo la nostra campagna imponendo prezzi ridicoli per le derrate alimentari senza distinguere tra produzione buona e produzione cattiva». Una tenaglia che in questo momento «sta schiacciando chi sta alla base della filiera e lavora in stalla o nei campi, ma che un domani potrebbe travolgere quegli industriali che oggi hanno il coltello dalla parte del manico».
Farinetti sostiene che è anacronistico far crociate contro le materie prime straniere e che in certi casi la difesa del made in Italy ad oltranza è controproducente. Che ne dice?
«Nessuno fa il peana di tutto quello che produciamo in Italia. E anche all’estero, è ovvio, ci sono prodotti di ottimo livello. Il tema però è un altro: l’abnorme distorsione creata dalla speculazione sui prezzi. Il grano è pagato oggi come nel 1986. Come se un operaio prendesse lo stipendio di 30 anni fa. E non si può dire che il tema sia la qualità. Prenda il latte. Con quello italiano si fanno formaggi Dop più pregiati di quelli francesi. La sua bontà, insomma, non si discute. Eppure viene pagato una miseria».
Chi sono gli speculatori?
«È la grande finanza. Come la borsa cerealicola di Chicago che fa il bello o il cattivo tempo. O i furboni che stoccano le derrate per poi tirarle fuori al momento giusto e muovere i mercati a loro piacimento».
Se cala il prezzo a beneficiarne, in teoria, dovrebbe essere il consumatore… «Invece non è cosi. E il problema è qui. Dal grano al pane i prezzi aumentano del 1.500%. Dalla spiga alla pasta che finisce sugli scaffali del 500%. Come se per fare un kg. di pagnotte si utilizzassero 15 chili di frumento. In questo momento a beneficiarne sono i trasformatori e l’industria. Ma devono stare attenti perché la speculazione non guarda in faccia nessuno. E prima o poi potrebbero essere loro a pagare il conto».
Fosse in loro cosa farebbe?
«Va trovata un’alleanza tra agricoltori e buoni imprenditori del settore, rinunciando agli interessi di parte. La qualità italiana va pagata. E il grano e il latte sono due elementi distintivi della nostra identità da salvaguardare. La stella polare è il consumatore: guardi cosa è successo con l’olio di palma. È bastato che un’azienda ci rinunciasse per trainare tutti gli altri. E sa perché? Mica per sensibilità ambientale. Perché le vendite del prodotto più virtuose sono schizzate. E i concorrenti hanno dovuto adeguarsi. La gente chiede trasparenza, non solo una narrazione positiva. E chi la garantisce è premiato con margini maggiori».
Pensa che l’industria possa essere d’accordo?
«Io ho suggerito a molte aziende di spostare parte dei budget pubblicitari sull’informazione relativa ai prodotti che vendono. Gli agricoltori e l’hanno capito da tempo e spingono per l’etichettatura sulle origini degli ingredienti. È interesse anche degli industriali seguire questo processo di trasparenza. La competizione tra prodotto nazionale ed estero deve avvenire a pari condizioni. All’estero, per dire, si usano fitosanitari proibiti da noi. E se pensiamo al grano canadese, per dire, noi lo importiamo a dazio zero mentre loro ci impongono un balzello dell’11% quando esportiamo la pasta…».
Lo Stato cosa può fare?
«Aiutare a creare questa alleanza tra tutte le componenti della filiera, consumatori compresi, di cui alla fine beneficerebbero tutti. Il governo si sta muovendo bene sul latte. E deve proseguire su questa strada. Poi deve mettere in piedi un sistema di controlli credibile che garantisca la veridicità delle dichiarazioni sulla confezione. C’è fame di informazione. E questa è un’arma decisiva per difendere davvero il made in Italy dell’agricoltura».
Repubblica – 16 settembre 2016