Il governo pensa di mettere un freno al dilagare dei contratti a termine. Rivendendo il decreto Poletti che li aveva del tutto liberalizzati nel marzo 2014, come primo atto del governo Renzi a un mese dal suo insediamento, ben prima del Jobs Act arrivato un anno dopo. Se i dati Inps confermeranno la cavalcata di questi mesi (il 66% delle assunzioni tra gennaio e aprile è a tempo determinato, un quarto in più del 2015, ma anche del 2014), Palazzo Chigi potrebbe agire già in legge di bilancio. Da una parte, per rendere strutturalmente meno caro il contratto a tempo indeterminato, il ministro Poletti l’ha confermato ieri a Repubblica tv. Dall’altro, per disincentivare quello a termine.
I tecnici lavorano su più ipotesi. La durata delle proroghe, allungata nel 2014 da 3 a 5. Il generoso limite del 20% sul totale dei contratti stabili. La causale abolita: se prima un’azienda doveva giustificare il ricorso al lavoro a tempo, ora non più. «Ci sono spazi per tornare sulla disciplina, riequilibrando il largo favore fatto al contratto a termine, quando questo era crollato per la crisi», conferma Maurizio Del Conte, presidente Anpal, l’agenzia per le politiche attive. «Ma l’intervento non deve reintrodurre la causale, fonte di contenzioso infinito. Piuttosto si può lavorare sulla durata massima e portarla da 36 a 24 mesi». Una proposta che farà discutere. «La causale va invece ripristinata», reagisce Claudio Treves, segretario Nidil-Cgil. «Tra l’altro c’è una direttiva Ue che fissa come forma comune per l’assunzione il contratto a tempo indeterminato. Da cui discende l’obbligo di giustificare i rapporti a termine, come eccezione alla regola».
Secondo uno studio degli economisti Fabrizio Patriarca e Riccardo Tilli, pubblicato sulla rivista online Menabò, il tempo determinato non ha mai davvero mollato la presa.
Anche quando il contratto a tutele crescenti, introdotto dal Jobs Act, volava nei mesi di novembre e dicembre 2015. «È rimasto sui livelli 2013-2014, nonostante gli sgravi totali del 2015, l’esplosione dei voucher e l’abolizione dell’articolo 18», spiega Patriarca. «E ora corre più di prima e dove prima non c’era. Nelle imprese del Centro- Nord, dove la contrattazione stabile aveva un peso maggiore. E a Sud, con un aumento di un terzo». Eppure negli annunci del governo Renzi doveva essere spiazzato dalle tutele crescenti. Così non è stato. «Un segnale rassicurante», per Del Conte. «Le imprese hanno scelto con senso di responsabilità in base alle esigenze, temporanee o meno». E poi «il maggiore ricorso al tempo determinato è un anticipatore del ciclo, ovvero della ripresa piena che arriverà, anche in termini occupazionali ».
«Difficile dire se quest’impennata sia la prova del fallimento del Jobs Act», ragiona il giuslavorista Michele Tiraboschi. «Lo vedremo solo il prossimo anno, quando scadranno gli incentivi. Ma una cosa si può dire sin da ora: il fatto che le imprese abbiamo smesso di usare il tempo indeterminato dimostra che l’articolo 18 non era il vero ostacolo alle assunzioni.
Piuttosto lo è l’economia, fatta di cicli molto brevi che inducono a cautela. Il Jobs Act è una riforma sbagliata, pensata sul modello di industria del ‘900.
Oggi quel che conta non sono i contratti, ma le professionalità. E da questo punto di visto il Jobs Act è fermo, le politiche attive di ricollocazione sono partite solo per 30 mila lavoratori su 3 milioni di disoccupati».
Repubblica – 19 luglio 2017