Troppi politici locali che non parlano le lingue ma che raccolgono migliaia di preferenze. Troppi rimpatri anticipati per perseguire una carriera politica nazionale meno grigia di quella comunitaria. Troppi incarichi onorifici che non danno alcun potere reale. Aldilà delle presenze alle sessioni dell’Europarlamento – l’Italia si è classificata al 24o posto su 28 paesi nella classifica della legislatura che si è appena chiusa – le caratteristiche degli eletti italiani in Europa contribuiscono a spiegare la scarsa influenza del paese nelle istituzioni dell’Unione. La barriera principale è costituita dalla lingua.
Su 73 membri della delegazione italiana, solo una ventina parlano correntemente inglese e francese, le due «lingue di lavoro» che vengono utilizzate durante le riunioni informali per arrivare ai grandi compromessi tra gruppi politici. «A un incontro decisivo sulla direttiva Tabacco erano presenti quattro italiani su una decina di deputati», racconta un lobbista: «nessuno di loro è intervenuto. I loro assistenti traducevano quel che gli altri dicevano, ma gli italiani non osavano intervenire perché non parlano né inglese né francese».
IL RICHIAMO DI CASA
Nemmeno il sistema elettorale aiuta. Contrariamente agli altri grandi paesi, l’Italia elegge i suoi rappresentanti in Europa attraverso le preferenze. «Questo ci costringe a trascorrere buona parte del nostro tempo nelle circoscrizioni a caccia di voti per la rielezione», riconosce uno degli eurodeputati italiani. Grazie alle liste bloccate, gli eletti di Germania, Francia, Regno Unito e Spagna possono restare a Bruxelles 5 giorni a settimana per lavorare sui dossier. Le preferenze, invece, spingono i partiti a candidare consiglieri regionali, provinciali e comunali con una base elettorale consistente, ma competenze europee discutibili. La pratica è trasversale: da Mario Pirillo del Pd, che ha fatto una carriera tutta calabrese al fianco di Agazio Loiero, a Enzo Rivellini di FI, assurto agli onori della cronaca per un intervento in dialetto napoletano. Il leghista Lorenzo Fontana è cresciuto nel consiglio comunale di Verona. Vincenzo Iovine, eletto nell’Italia dei Valori, era presidente di un Caf per i pensionati.
ABBANDONI ANTICIPATI
L’interesse per la politica locale abbrevia anche la carriera europea dei politici italiani. La Germania può contare su pilastri come Helmar Brok e Hans Geert Poettering, presenti all’Europarlamento da tempo immemore. Per alcuni italiani, invece, Strasburgo e Bruxelles rappresentano un passatempo in attesa di un incarico locale. Nell’ultima legislatura, in molti si sono fatti tentare dal ritorno in patria. Mario Mauro ha abbandonato per diventare ministro della Difesa del governo Letta. Gabriele Albertini e Gianluca Susta hanno scelto di andare al Senato con Lista Civica. Deborah Serracchiani si è fatta eleggere alla presidenza del Friuli Venezia Giulia, mentre Rosario Crocetta è diventato governatore della Sicilia. Luigi de Magistris ha lasciato la presidenza della commissione Libertà pubbliche per fare il sindaco di Napoli.
L’altra tentazione tutta italiana è di accumulare incarichi formali da iscrivere sul biglietto da visita, ma che non hanno peso negli equilibri di potere: 15 tra presidenti e vicepresidenti di commissione e 12 tra presidenti e vicepresidenti delle delegazioni per i rapporti con i paesi terzi. In realtà, i posti che contano sono quelli di presidente delle commissioni con potere legislativo – Paolo De Castro e Amalia Sartori – e i due vicepresidenti dell’Europarlamento – Gianni Pittella e Roberta Angelilli. Fondamentale è assicurarsi il ruolo di «coordinatore» dei grandi gruppi politici nelle commissioni parlamentari, dove gli italiani – contrariamente ai tedeschi – si contano sulle dita di una mano.
Spesso gli italiani più efficaci sono deputati semplici. Raffaele Baldassarre di FI ha gestito dossier sensibili, come la creazione del brevetto europeo o lo statuto dei funzionari Ue. Giovanni La Via del Ncd e Francesca Balzani del Pd hanno avuto un ruolo importante per il bilancio dell’Ue. In commissione Commercio, il liberale Niccolò Rinaldi ha guidato la battaglia per il «Made in». Roberto Gualtieri del Pd è stato protagonista al fianco di pesi massimi come Elmar Bork e Guy Verhofstadt dei negoziati sulla creazione del Servizio Diplomatico Europeo, sul Fiscal Compact e sul futuro della zona euro.
Il Messaggero – 26 aprile 2014