LA STAMPA. Sei morti sul lavoro dall’alba al tramonto e il mondo sembra fermarsi. «Mamma mia», sospira Maurizio Landini. È un attimo. «Serve una norma che fermi le aziende sino a quando non sono ripristinate le norme di sicurezza», incalza il segretario della Cgil. Lunedì i sindacati hanno discusso con Mario Draghi come porre termine alla strage ed è cominciato un percorso, concede il sindacalista. Ora il confronto deve continuare, e ottobre deve essere il mese delle decisioni. Due obiettivi: coinvolgere il sindacato nella grande fase di riforme e impegnarsi per migliorare la qualità del lavoro. L’alternativa è la piazza, assicura Landini. Il che, spiega, non è una minaccia, ma «un esercizio democratico».
Segretario, col premier progressi veri o solo parole sul dossier Sicurezza?
«Progressi veri. La serie degli incidenti dimostra l’urgenza di agire. Qualità del lavoro, salute e sicurezza devono diventare una priorità nazionali».
Servono norme dure…
«Si, certo. Vanno aumentati i poteri ispettivi e le sanzioni. Con Draghi abbiamo condiviso la necessità che nelle imprese che non rispettano norme, o che sono soggette a incidenti, le attività possano essere sospese sino a che non si ripristinino le condizioni di sicurezza. Questo vuol anche dire, da subito, effettuare migliaia di nuove assunzioni negli ispettorati del lavoro, nelle Asl e servizi territoriali. Inoltre, è necessario rafforzare il vincolo della formazione per i datori di lavoro. L’incidente di Pieve Emanuele avviene nell’ambito di un appalto e, troppo spesso, le vittime sono lavoratori precari o neoassunti. Non si può restare a guardare».
Voi volete la patente a punti della sicurezza aziendale.
«E’ la nostra richiesta. Il governo si è reso disponibile a lavorarci a partire dal coordinamento delle banche dati. Abbiamo condiviso più ampi poteri ispettivi e sanzioni per chi non rispetta le regole. Nessuna azienda deve rimanere senza rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza. Il nodo è prevenzione e formazione. La sicurezza deve essere considerata un investimento, non un costo».
La chiave è lo stop delle aziende fuori norma, vero?
«Sì. Senza sicurezza non si può lavorare».
Da una settimana si dibatte su un Patto per l’Italia. L’idea è del governo?
«Nell’incontro con Draghi, non s’è parlato di patti. Tutto è avvenuto sulla base della lettera inviata il primo settembre da Cgil, Cisl e Uil. Oggi l’esigenza è che il mondo del lavoro sia coinvolto nelle decisioni su riforme, azioni sociali ed economiche. S’è cominciato con Salute e Sicurezza. Siamo solo all’inizio».
Cosa manca?
«Il governo si è impegnato a realizzare un protocollo d’intesa sugli investimenti previsti dal Pnrr: è importante. Ciascuna amministrazione titolare di investimenti deve istituire tavoli permanenti sulla destinazione dei fondi e loro ricadute. Tutte le riforme devono essere oggetto di confronti preventivi a livello nazionale. Così il metodo diventa un sistema di relazioni, nazionali e territoriali, per tutti i sei anni del piano».
Abbiamo detto «patto» senza averlo nel sacco?
«È un titolo, una proposta che qualcuno ha avanzato. Io mi limito a dire che è cominciato il confronto col governo sulla base della nostra lettera. Su pensioni, fisco, ammortizzatori e concorrenza, sulle scelte di politica industriale, nell’ambito della Nadef e della legge di bilancio. Ora conta il merito».
Davvero? Fra un mese si sbloccano i licenziamenti.
«Sarà il 31 ottobre, per tessile, abbigliamento, commercio, servizi e turismo. Va affrontato, perché la riforma degli ammortizzatori, anche se si fa, sarà in vigore l’anno prossimo. Non possiamo permetterci che in settori privi di tutele scattino i tagli occupazionali. E non possiamo accettare che certe aziende prendano decisioni unilaterali, anche antisindacali come nel caso di Gkn. Si pone la questione di transizioni e delocalizzazioni. Ci aspettiamo che non si perda tempo».
Entro ottobre?
«È il mese della legge di bilancio e delle emergenze da risolvere. Il mese per agire».
Basta la forza di Draghi a garantire il buon esito?
«L’autorevolezza e la competenza del presidente non ha bisogno di certificazioni sindacali. È una carta di identità che qualifica il nostro Paese. Dopodiché, è il governo che deve assumersi la responsabilità di decidere. Il punto è quali riforme. Con la pandemia, tantopiù, la qualità del lavoro è diventata elemento davvero centrale. Perché molte cose non vanno bene».
Quali?
«La ripresa ha generato troppi contratti a termine. Tre quarti delle assunzioni sono limitate nel tempo. Solo l’1 per cento ha durata superiore a un anno. È un problema serio. Il part-time involontario sta aumentando, riguarda quasi tre milioni di persone. Questo amplifica la povertà e la precarietà dei lavoratori. Cinque milioni di persone nei settori privati sono sotto i 10mila euro di reddito annuo».
Chi si batte per il salario minimo pensa a loro. Ma voi non ne volete parlare.
«Non è vero. Noi vogliamo aumentare i salari e la soluzione consiste nell’ampliare l’efficacia dei contratti collettivi nazionali, cancellando le centinaia di intese pirata. Vuol dire dare valore di legge generale agli accordi nazionali e di conseguenza ai minimi salariali e ai diritti collegati, come – ad esempio – maternità, infortunio, ferie, malattia e maggiorazioni».
Vi accusano di voler solo difendere il vostro posto.
«I contratti nazionali tutelano chi lavora e i suoi diritti, non il sindacato. Si tratta di impedire la competizione al ribasso. Soprattutto nel sistema dei sub appalti, nelle finte cooperative. Questo è il nostro contributo alla discussione aperta in Europa».
Nei suoi interventi ricorre la minaccia di andare in piazza. C’è chi dice che è una pistola caricata a salve.
«Manifestare non è uno sport, né un obiettivo. Lo si fa per ottenere miglioramenti e per difendere, ed estendere, i diritti acquisiti. Viviamo grandi trasformazioni e cambiamenti: andremo in piazza se le nostre richieste non saranno accolte e non ci saranno risposte. Non è una minaccia ma un esercizio democratico. È per richiamare tutti alle proprie responsabilità».
Se salta quota 100, vi arrabbiate?
«Non era la riforma della legge Fornero e non è stata sufficiente per cambiarla. Noi proponiamo che dall’età dei 62 anni ci sia la possibilità di scelta, visto che il sistema è contributivo. Senza dimenticare che occorre tenere conto dei diversi lavori più gravosi, dei giovani, del lavoro di cura e in particolare delle donne, che pagano cara la pandemia in termini occupazionali. L’obiettivo deve essere questo, oltre a evitare lo scalone di cinque anni».
Torniamo al Patto. Se non è Draghi, è di Bonomi. Come va con Confindustria?
«Quest’anno si sono rinnovati molti contratti, ed è stato rilevante. Le parti sociali, nel pieno della pandemia, hanno dimostrato di sapere rinnovare i contratti e innovarli. Lo schema di contrattazione che ha funzionato sinora va qualificato e sostenuto anche legislativamente».
Tutte rose e fiori?
«No, ci sono anche diversità. Ad esempio, pensiamo che servano fondi per la sanità pubblica, e non privata. Se parliamo di decreto per la concorrenza, diciamo che abbiamo già pagato privatizzazioni fatte male. Il mercato da solo non risolve il problema. Sono aumentate precarietà e povertà. Colpa delle scelte dei governi, sia a destra che a sinistra».
Lei denuncia un clima di paura, rabbia ed incertezza. Cosa glielo fa pensare?
«E’ quello che percepisco. La pandemia ci ha cambiati. C’è più incertezza, e le differenze territoriale e le diseguaglianze che sono aumentate».
Intanto aumentano le tariffe e l’energia è più cara.
«Stiamo pagando la lentezza della nostra reazione a un cambiamento divenuto inevitabile. E’ un tema grave. Ci pone la necessità di investire seriamente sulle rinnovabili e su un nuovo modello di sviluppo. La transizione è la nuova frontiera. I giovani del PreCop 26 di Milano discutono proprio del nuovo modello di questo, parteciperò alle loro iniziative. Il governo della transizione ambientale e digitale è centrale per un futuro basato su qualità del lavoro e giustizia sociale». —