Marco Bresolin. La Commissione europea è convinta che non sia una perdita di tempo, anzi. Ma a Bruxelles c’è la consapevolezza che il quindicesimo round di negoziati sul Ttip, iniziato ieri a New York, non farà grandi passi avanti. Anzi. È sempre più concreto il rischio di uno stop per almeno un anno: «Fino al voto in Germania non si muoverà foglia» assicura una fonte comunitaria di alto livello.
Il governo tedesco è nettamente diviso al suo interno. Se da un lato la Cdu di Angela Merkel spinge per un’accelerata nella trattativa sul Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti), la Spd del suo vice Sigmar Gabriel non ne vuole sapere. Le sempre più frequenti manifestazioni di piazza contro il Ttip hanno convinto i socialdemocratici che un’accelerata nei negoziati rischierebbe di portare ulteriori consensi ai partiti dell’estrema destra e della sinistra, per questo bisogna mettere tutto nel congelatore. E magari rivendicarlo pure in campagna elettorale: «Lo abbiamo fermato». Visto che le cose stanno così, la Cancelliera non ha intenzione di opporsi: rischierebbe di trovarsi da sola a pagare il conto nelle urne.
Ma la Germania è in buona compagnia, perché sono almeno sei i Paesi che in occasione dell’ultimo consiglio informale a Bratislava hanno chiesto uno stop dei negoziati: ci sono anche Francia, Olanda (per entrambe il 2017 è un anno elettorale), Austria, Grecia e Lussemburgo. Gli altri, invece, hanno deciso che bisogna andare avanti almeno fino alla fine di questo round, che probabilmente sarà l’ultimo con il team di negoziatori dell’amministrazione Obama.
La commissaria al Commercio, Cecilia Malmström, preferisce fare un passo alla volta. «I negoziati continuano – spiega a La Stampa – e vediamo quali progressi riusciremo a fare. Se non dovessimo chiudere l’accordo entro la fine dell’anno, probabilmente bisognerà prendere una pausa, un’interruzione naturale, in attesa della prossima amministrazione americana». La commissaria svedese non si sbilancia sull’effetto che il calendario elettorale europeo potrebbe avere sui negoziati, ma si limita a parlare di quello americano. «Se non siamo ancora arrivati a un accordo non è colpa delle proteste nelle piazze. La realtà è che ci serve più tempo perché gli Usa sono in periodo pre-elettorale ed è difficile per loro fare le necessarie concessioni».
La road-map è tracciata. Questo round di negoziati si concluderà entro le elezioni americane del mese prossimo. A Bruxelles non escludono nemmeno un nuovo round a dicembre, con l’amministrazione Obama ancora in carica. Ma è molto difficile. Dunque, quando si deciderà di sospendere i lavori, si farà il punto sullo stato della trattativa, l’accordo verrà congelato e molto probabilmente – come richiesto dal ministro italiano Carlo Calenda in occasione dell’ultimo consiglio informale di Bratislava – i punti dell’accordo su cui c’è un’intesa verranno inseriti in un documento che verrà reso pubblico anche per rispondere alle critiche di poca trasparenza.
«Abbiamo fatto molti progressi, ma non possiamo ancora chiudere» ammette Malmström, che però non sembra particolarmente preoccupata dallo scorrere del tempo. «Stiamo negoziando con gli Usa da tre anni e se guardiamo all’intesa con il Canada, il Ceta, sono serviti cinque anni per arrivare un accordo». Che ancora non è ufficialmente concluso, anche se c’è molto ottimismo. La data chiave è il 18 ottobre, giorno in cui i ministri si riuniranno per dare il via libera. Alcuni di loro hanno chiesto alla Commissione e al governo canadese di produrre un documento esplicativo da allegare all’accordo per avere la massima chiarezza. Si tratterà di un paio di pagine, non di più. Certo non verranno riaperti i negoziati: la speranza è dunque di arrivare al 27 ottobre per la firma definitiva.
Dopodiché, con la ratifica dell’europarlamento, l’accordo verrà applicato in forma provvisoria, in attesa di essere approvato da tutti i Parlamenti nazionali. Ma in alcuni Paesi, vedi Austria e Belgio, potrebbe non arrivare il via libera. In quel caso, inedito, nessuno sa dire quali potrebbero essere le conseguenze.
La stampa – 4 ottobre 2016