È di quasi due anni fa sentenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato illegittimo il blocco dei contratti dei dipendenti pubblici, attuato in nome dell’emergenza finanziaria dai governi che si sono succeduti dal 2010 in poi. Poco più di sei mesi fa c’è stata un’intesa politica tra esecutivo e sindacati, ma il percorso formale che dovrebbe portare ai rinnovi veri e propri non è ancora iniziato. L’approvazione definitiva da parte del Consiglio dei ministri dei provvedimenti di riforma del pubblico impiego, l’altro ieri, dovrebbe essere l’ultimo passaggio prima dell’avvio del processo, ha ribadito Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione. Formalmente, il governo deve emanare un atto di indirizzo all’Aran, l’agenzia pubblica che si occupa concretamente della trattativa con i sindacati. Madia ha detto che ciò avverrà «certamente prima dell’estate».
LE REGOLE Proprio la revisione delle regole del pubblico impiego ha sostanzialmente rimosso quello che Cgil, Cisl e Uil consideravano un ostacolo insormontabile ai rinnovi, ovvero le tre fasce di merito introdotte dalla riforma Brunetta nel 2009 e di fatto mai attuate proprio a causa del blocco intervenuto nel frattempo. In precedenza, in attuazione della stessa legge Brunetta (il decreto legislativo 150 del 2009), erano stati razionalizzati e ridotti a quattro i comparti della Pa per i quali saranno negoziati specifici contratti.
Dunque ora almeno sulla carta non ci sarebbero più ostacoli a procedere. Ma nodi da sciogliere ce ne sono ancora e vanno al di là delle necessità di reperire adeguate disponibilità finanziarie. Circa due mesi fa il governo ha provveduto a ripartite le risorse del Fondo in cui erano state appostate le risorse per varie esigenze della Pa: specificamente ai contratti della pubblica amministrazione centrale vanno 600 milioni per il 2017 e 900 milioni a partire dal 2018, che si aggiungono ai 300 già stanziati per il 2016. Toccherà alla prossima legge di bilancio – c’è un impegno politico nell’ultimo Documento di economia e finanza – stanziare risorse ulteriori per un ammontare più o meno analogo (1,2 miliardi), mentre quelle per il servizio sanitario e per egli enti territoriali saranno trovate a carico dei rispettivi bilanci. Complessivamente, gli stanziamenti dovranno essere sufficienti ad onorare l’accordo con i sindacati: aumenti medi di 85 euro al mese per tutti i dipendenti.
Il ministero della Pubblica amministrazione ha già chiarito come intende muoversi: la media sarà interpretata nel senso di dare in proporzione di più a chi ha retribuzioni più basse e di meno a chi si trova invece a un livello più alto. Ma c’è da risolvere un problema: la sovrapposizione tra gli aumenti contrattuali e il cosiddetto bonus 80 euro. Siccome questo credito d’imposta si riduce con grande progressività (fino a svanire) nella fascia di imponibile Irpef che va da 24 mila a 26 mila euro l’anno, per una parte consistente di lavoratori l’incremento di reddito farebbe venir meno il beneficio degli 80 euro e quindi risulterebbe sostanzialmente vanificato. Lo ha ricordato ieri, sollecitando una soluzione, la numero uno della Cgil Susanna Camusso. Le ipotesi di intervento sono due, entrambe complesse: la prima prevede di trasformare il beneficio in detrazione fiscale, in modo che la sua progressività risulti ammorbidita, la seconda invece richiederebbe di sterilizzare gli 80 euro rispetto al prelievo Irpef.
I PROVVEDIMENTI Intanto il governo deve chiudere entro fine mese la partita della riforma della Pubblica amministrazione approvando in via definitiva i decreti sulle società partecipate pubbliche e quello correttivo sul licenziamento dei cosiddetti furbetti. Il Consiglio dei ministri si svolgerà con tutta probabilità la prossima settimana.
Il Messaggero – 21 maggio 2017