Paolo Di Paolo. Venuti al mondo in Occidente, negli anni edonisti del riflusso, ci siamo affacciati alla coscienza carichi di attese. A debita distanza dall’ultima guerra, il crollo del Muro aveva l’aria di un armistizio con la Storia – e non lo era. Così, abbiamo visto cadere una dopo l’altra le grandi speranze che i padri avevano custodito per il nostro ingresso nell’età adulta: una vita sicura e spensierata, un lavoro, una bella, non tardiva pensione da godersi fino ai cent’anni.
Il mito della sicurezza in tempi di pace apparente è franato insieme alle Torri di New York nella prima estate del secolo. Il mito del posto fisso non abbiamo fatto in tempo a coltivarlo che era già passato dalla risata tragica di Fantozzi al ghigno di Checco Zalone.
Allegramente o disperatamente precari, ostaggi della partita Iva, abbiamo trovato un riflesso della nostra vita a pezzi montando i mobili Ikea. Il mito della pensione è tramontato davanti ai nostri occhi con lo stesso colore arancio acceso delle buste dell’Inps.
Arriveranno a casa, per i nati negli Anni Ottanta, quando ne avranno – ne avremo – quasi ottanta anche noi. Ovvero più o meno nella stagione in cui ci toccherà prendere congedo dal mondo. I dati sullo stato di salute degli italiani sono lì per appannare anche l’ultimo mito rimasto: quello di una inattaccabile longevità. La quarta età della vita, quella che ci dava da sperare in una giovinezza a rovescio, fuori tempo massimo, sulla panchina sotto casa o su una spiaggia di Santo Domingo. Già pronti a iscriverci alla newsletter di Pensioneallestero.it, ci tocca quella di Bellezzaebenessere.eu. È presto per allarmarsi? Lo stallo dell’aspettativa di vita ci parla di un’Italia che, non certo Paese per giovani, rischia di non essere più nemmeno un Paese per vecchi. Contavamo di avere il fiato dei maratoneti, di vincere sulle lunghe distanze, allenati dagli approfondimenti dei settimanali sui trent’anni come «i nuovi venti», dei quaranta come i nuovi trenta, e così via. Sul primo verso della Divina Commedia – «Nel mezzo del cammin di nostra vita» – le professoresse erano pronte a giurarci che no, quei trentacinque anni di Dante non andavano presi per buoni, per nostri, e che c’era da spostarli di parecchio in avanti. Macché. Almeno per i maschi – a guardare i severi dati Istat – c’è da rosicchiare poco. E da sperare che quei dieci anni guadagnati dal Medioevo a oggi non siano perfino in caduta libera.
Non serve la statistica a registrare la corrente di disincanto e di sfiducia che soffia in questi anni e ci invecchia anzitempo. Né gli osservatori della salute possono dirci tanto di più sull’ansia che ci corrode o ci fa scappare, uno stato di tensione permanente che uno scrittore – guarda caso – trentacinquenne, Massimiliano Virgilio, ha riassunto nel titolo di un suo romanzo: «Arredo casa e poi m’impicco». Una catastrofe collettiva, a rate quasi eterne come un mutuo. Forse, nel vortice dei pensieri pesanti, ci siamo distratti anche dalla nostra stessa salute. E confidando in quello che l’Osservatorio nazionale chiama il boom dei centenari (dai cinquemila del 2002 ai diciannovemila del 2015), ci siamo messi ad aspettare – come l’unica cosa scontata – la nostra lunga vecchiaia. Convinti – in mancanza di meglio – che no, non è mai troppo tardi per avere una giovinezza felice. E adesso?
La Stampa – 27 aprile 2016