L’operazione per consentire ai lavoratori di usufruire su base volontaria del Tfr in busta paga scatterà operativamente dalla seconda metà del 2015. A sancirlo sarà, a meno di sorprese dell’ultima ora, la legge di stabilità da 30 miliardi che sarà varata oggi dal Consiglio dei ministri. La “ex Finanziaria” confermerà i 18 miliardi di alleggerimento di peso del fisco e del costo del lavoro per le imprese di cui 10 per la stabilizzazione del bonus da 80 euro (3 miliardi dei quali già garantiti dal decreto Irpef), 500 milioni per rafforzare gli sgravi per le famiglie numerose, 6,5 miliardi per azzerare la componente costo del lavoro dell’Irap e 1 miliardo per la decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un’operazione coperta quasi in toto per 13 miliardi da tagli alla spesa, di cui 4 a carico delle Regioni con un possibile stop al previsto aumento di 2 miliardi del Fondo sanitario.
Del testo che approda oggi a palazzo Chigi non faranno però parte il riordino di tax expenditures e incentivi alle imprese e la potatura delle municipalizzate.
In extremis, invece, potrebbe entrare nella “stabilità” l’aumento della tassazione sulla previdenza integrativa, che ieri era tra le ipotesi più gettonate all’esame dei tecnici di Palazzo Chigi e con un’armonizzazione dell’attuale prelievo dell’11,5% a quello applicato ai titoli di Stato (12,5%). Il tutto con una possibile riduzione del carico fiscale oggi applicato ai fondi delle casse di previdenza.
Gli interventi sulle agevolazioni fiscali e le partecipate confluiranno, se oggi non ci saranno ripensamenti, in altri provvedimenti ad hoc con la possibilità di rientrare, se necessario, nella “stabilità” durante il suo cammino parlamentare, che inizierà alla Camera.
Le coperture ammonteranno a 16 miliardi e saranno garantite anzitutto da 13 miliardi di tagli, di cui 6 miliardi, ovvero quasi la metà, a carico di Regioni ed enti locali. Il contributo dei Comuni sarà di 1,5 miliardi, ai quali si aggiungeranno 500 milioni di competenza delle Province. Dalle riduzioni di spesa dei singoli ministeri dovrebbero arrivare altri 4 miliardi. Ma la trattativa tra Palazzo Chigi e singoli ministri è proseguita per tutta la giornata di ieri, e non è escluso che il target possa cambiare, così come quello per gli enti territoriali. Tre miliardi dovrebbero poi essere assicurati dal nuovo giro di vite sugli acquisti di beni e servizi della Pa (con ricaduta quasi equivalente su dicasteri, Governatori e sindaci). Possibili risparmi da destinare a investimenti anche da un piano di dismissioni di immobili pubblici.
I 3 miliardi mancanti deriveranno da misure sul fonte della lotta all’evasione fiscale, a cominciare dal rafforzamento del meccanismo del “reverse charge” collegato all’Iva, nonché dalla possibilità per la Pa di versare l’Iva direttamente all’Erario e non più ai fornitori. Una possibile stretta antievasione da antiriciclaggio potrebbe arrivare anche sul gioco illegale e in particolare sul fronte delle scommesse raccolte dai cosiddetti Ctd (centro trasmissione dati).
Considerando gli 11,5 miliardi che il governo intende utilizzare azionando la leva del deficit, ma rimanendosotto il tetto del 3%, l’asticella si fermerebbe a 27,5 miliardi. I 2,5 miliardi necessari per completare la manovra da 30 miliardi arriverebbero da nuove entrate per oltre 1,5 miliardi, di cui un miliardo con una stretta fiscale sul settore dei giochi (2 punti in più di Preu su new slot e 2 sulle Vlt che metterebbe in difficoltà il mercato). Tra le misure buone per tutte le stagioni rispunta anche la rivalutazione del valore di acquisto di terreni e partecipazioni. Una quota non superiore ai 500 milioni arriverà da mini una tantum mirate non fiscali.
Non tutte le risorse avranno una destinazione: una fetta di 2,5 miliardi sarà utilizzata come «cuscinetto» di sicurezza per far fronte a ulteriori richieste della Ue per rimanere nei parametri di deficit. A confermarlo è il ministro Giuliano Poletti intervenendo a La7. Dei restanti 27,5 miliardi, 15 miliardi in aggiunta ai 3 già previsti dal decreto Irpef, come detto saranno utilizzati con funzione di detassazione e decontribuzione per favorire la ripartenza della crescita.
La scelta del Governo è chiara: puntare tutto su una legge di stabilità dalla chiara fisionomia espansiva. E in questa direzione si collocano la proroga dell’eco-bonus del 65% e del bonus del 55% per le ristrutturazioni edilizie e i 500 milioni destinati al credito d’imposta per la ricerca. Gli altri 12,5 miliardi per quasi due terzi sono ipotecati dalla necessità di far fronte alle cosiddette spese indifferibili per 6miliardi (dal 5 per mille alle missioni internazionali di pace) e di disinnescare la clausola fiscale da 3 miliardi ereditata dal Governo Letta. I 3,5 miliardi rimanenti sono utilizzati sempre in chiave “espansiva”: 1,5 per finanziare i nuovi ammortizzatori collegati al Jobs Act; 1 miliardo di allentamento del Patto di stabilità interno sui Comuni (che avranno un bilancio ripulito per altri 2,3 miliardi per effetto della riforma della contabilità); 1 miliardo per la stabilizzazione dei 150mila insegnanti precari prevista dalla riforma della scuola.
Regioni sul piede di guerra: dovremo aumentare le tasse
Dietro la dura presa di posizione dei presidenti la possibilità che metà dei sacrifici arriverebbero dalla sanità
«Tagli per quattro miliardi sarebbero insopportabili per le regioni. L’ho detto in tutti i modi a tutti, da Renzi in giù. Mi auguro non siano decisioni irreversibili, che ci sia ancora spazio per un confronto. Non vogliamo fare la parte di quelli che tartassano mentre il Governo toglie l’Irap. Per l’economia e la ripresa sarebbe “effetto zero, oltretutto». Mentre la manovra si avvicina e girano sempre più insistenti le voci di riduzione sensibili delle risorse alle regioni, Sergio Chiamparino, renziano doc e rappresentante dei governatori, sente odore di bruciato per le casse regionali. Anche perché tra le ultimissime in arrivo nella serata di ieri da palazzo Chigi, metà dei 4 mld di tagli alle Regioni arriverebbe dalla sanità.
Sarebbe la sorpresa dell’ultim’ora, il taglio alla spesa sanitaria, intorno alla quale non mancheranno ancora confronti serrati, dopo quello avuto ieri a palazzo Chigi da Beatrice Lorenzin. Che potrebbe avvenire lasciando alle regioni il compito di decidere come modulare gli interventi da 4 mld, con la necessità però di destinare i tagli soprattutto alla sanità, che rappresenta anche fino all’80% dei loro bilanci. O con una potatura del Fondo 2015 fino a 2 mld, che però per il Governo non sarebbe un taglio vero e proprio, ma un «mancato aumento»: l’asticella del Fondo sanitario 2015 sarebbe verrebbe così riportata ai 109,9 mld di quest’anno, azzerando l’aumento fino a 112mld previsto e concordato con i governatori col «Patto per la salute». Il rischio anche politico della riduzione del Fondo sarebbe tra l’altro anche di mettere nuovamente in discussione il «Patto» siglato quest’estate da Governo e regioni, ma finora rimasto lettera bianca. Tutto o quasi da ricominciare, insomma, inaugurando l’ennesima stagione conflittuale tra palazzo Chigi e i governatori.
Sempre che i pontieri non riescano in qualche modo a spuntarla, come ha fatto Lorenzin in serata a Palazzo Chigi. Partita apertissima, anche per reperire gli altri 2 miliardi che resterebbero ancora a carico delle regioni, tra spending review generalizzata, centrali d’acquisto e interventi non solo col bisturi, peraltro all’insegna dei tagli semi (se non del tutto) lineari.
Intanto Chiamparino marca netto il suo dissenso. «Si rischierebbe un effetto paradossale: da una parte si toglie l’Irap, dall’altra quasi si invita le regioni ad aumentarla, a ridurre i servizi e a farli pagare di più. Altro che ripresa. Non sarebbe davvero un buon risultato. Ho scritto a Padoan e a Del Rio, aspetto una risposta. Mi auguro ci siano margini per discutere, anche in extremis».
Liquidazione in busta paga su base volontaria. Tfr, operazione al via ma solo da metà 2015
Fondi pensione e Casse. Prende corpo l’ipotesi di un’armonizzazione dell’aliquota d’imposta sulle rendite al 12,5% per tutti sul maturato annuo
Scatterà nella seconda metà dell’anno, sarà su base volontaria e non avrà impatto sui conti pubblici: su queste tre coordinate si svilupperà l’operazione Tfr in busta paga. La conferma arriva da fonti diverse dopo che ieri prima il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, e poi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, hanno parlato di una proposta che «va avanti concretamente» e che «è prevedibile» venga inserita nella legge di stabilità. Due giorni fa il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, aveva mantenuto tutte le cautele del mondo bancario sul dossier: «Quando ci sarà un testo per il confronto forniremo le nostre valutazione». Una posizione che confermerebbe, sia pure indirettamente, l’ipotesi di una “norma-ponte” da definire sotto il profilo tecnico nei primi mesi dell’anno prossimo.
L’operazione dovrebbe prevedere per i lavoratori libertà di scelta tra tre possibilità: lasciare la liquidazione in azienda, convogliarla sui fondi pensione oppure beneficiarne nello stipendio in un’unica soluzione o attraverso una spalmatura mese per mese. In entrambi casi verrebbe mantenuta l’attuale tassazione agevolata (mediamente tra il 23 e il 26%, cioè inferiore all’aliquota marginale Irpef). Più complessa invece la questione della liquidità da assicurare alle imprese. L’attuale garanzia prevista con l’apposito Fondo Inps sul Tfr (alimentato dai contributi dei datori di lavoro) è considerata insufficiente dalle banche. Di qui l’idea, che resta in campo, di prevedere una seconda garanzia pubblica, magari con il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti.
Intanto in contemporanea con l’operazione Tfr prende corpo l’ipotesi di una razionalizzazione dell’aliquota d’imposta sulle rendite dei fondi pensione, oggi all’11,50% dopo il ritocco introdotto qualche mese fa quando si portò dal 21 al 26% l’aliquota d’imposta sulle rendite finanziarie (BoT esclusi). Non ci sono indicazioni precise su questa misura, che all’interno del Governo viene tuttavia soppesata con cura visto che si tradurrebbe in un aumento di imposta. È probabile che si arrivi a un’aliquota del 12,5% per tutti sul maturato annuo, con un abbassamento del prelievo sulle rendite delle casse previdenziali(oggi al 20%).
Gli interventi sul Tfr e quello sulla fiscalità dei fondi dovrebbero procedere con una logica coerente. Per il presidente di Assofondiprevidenza, Michele Tronconi, «l’innalzamento della tassazione sui fondi pensione, insieme alla manovra sul Tfr, deve essere interpretato come una marcia indietro rispetto alla logica della previendenza multipilastro. A questo punto è impossibile, per i fondi pensione, collaborare al fondo per la crescita a cui avevamo lavorato con l’obiettivo di ridare spinta all’economia». Oggi ai fondi pensione aderisce meno del 30% dei lavoratori, stando agli ultimi dati Mefop. A fine 2013 poco più di 6,2 milioni di lavoratori ha aderito a una forma di previdenza complementare, il 27,7% del totale. Da questa platea andrebbe poi sottratto circa 1,4 milioni di lavoratori che hanno smesso di fare versamenti ma che restano iscritti.
Il Sole 24 Ore – 15 ottobre 2014