Stefano Simonetti, dal Sole 24 Ore sanità. A leggere il testo della bozza di legge di stabilità per il 2016 si rileva subito un aspetto inedito: erano decenni che non venivano fatti così pochi interventi normativi sul pubblico impiego. Anzi, a dirla tutta, nella bozza non c’è proprio nulla, a parte la previsione delle risorse per i rinnovi contrattuali. No comment sull’art. 16 “Giovani eccellenze nella Pubblica amministrazione”, in quanto la norma parla di tutt’altre materie ma dal lunghissimo testo ci si deve aspettare: l’indisponibilità dei posti vacanti di dirigente (con esclusione dei dirigenti del Ssn che esercitano funzioni fondamantali) e la reiterazione del congelamento dei fondi per la retribuzione accessoria e della loro riduzione in ragione del personale cessato, tenendo però conto degli “assumibili” (per tutti). Anche quelle scarne disposizioni per il lavoro dipendente in generale non riguardano il pubblico impiego (regime fiscale dei premi di produttività o part-time prepensionistico); infatti gli articoli di riferimento escludono espressamente i dipendenti pubblici.
Passando alla questione dei rinnovi, appare doveroso segnalare che la stampa e gli addetti ai lavori hanno fatto parecchia confusione. È stato affermato che il rinnovo è in pratica un’elemosina, che si tratterebbe di 5 euro netti per dipendente. Perfino eminenti sindacalisti – non di sigle autonome, ma confederali – hanno affermato che i 300 milioni divisi per 3,2 milioni di dipendenti pubblici generano appunto, la miseria di neanche 100 euro lordi annui pro capite.
Non è così, in realtà. Infatti l’art. 27 della bozza stabilisce che tale stanziamento vale soltanto per «gli oneri posti a carico del bilancio statale», come peraltro è sempre avvenuto in passato in ossequio all’art. 48 del Dlgs 165/2001 citato appunto dalla legge di stabilità. Con la evidente conseguenza che due comparti chiave come la sanità e le autonomie locali (circa un milione e mezzo di lavoratori) non sono ricompresi in “quello” stanziamento.
Semmai per il Servizio sanitario nazionale c’è da approfondire la circostanza – tutt’altro che chiara – se le risorse per i rinnovi siano all’interno del Finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard di 111 miliardi indicato in altra parte della stessa legge di stabilità o restino davvero a diretto carico delle aziende sanitarie, visto che l’art. 27, comma 3 sancisce che gli oneri «sono posti a carico dei rispettivi bilanci».
Per ciò che concerne le disposizioni sulla sanità (30-32) spicca il comma 17 dell’art. 30 che delinea il percorso per giungere alle “aziende sanitarie uniche”, operazione fortemente voluta già lo scorso anno dalla Regione Toscana che intende fondere Asl e Aziende ospedaliero-universitarie. In termini generali desta stupore il fatto che la platea degli interessati abbia così vibratamente protestato perché l’entità dei rinnovi era ampiamente annunciata e deriva soprattutto dalle regole del gioco che, evidentemente, non tutti conoscono o fanno finta di non conoscere. Mi riferisco alle nuove parametrazioni stabilite per i rinnovi contrattuali sia del settore privato che per il pubblico ma che, per quest’ultimo, vengono applicate per la prima volta.
Forse il lungo blocco della contrattazione che perdura dal giugno 2010 ha distratto l’attenzione dai contenuti dell’Accordo del 22 gennaio 2009 sul nuovo modello contrattuale che sostituì l’Ipca al tasso di inflazione programmata ma che, soprattutto, ne imponeva l’applicazione non più sul monte salari (cioè sull’intero coacervo della retribuzione) ma solo sulle “voci di carattere stipendiale”. Tale Accordo fu seguito dall’Intesa del 30 aprile che recepiva l’Accordo stesso per il pubblico impiego. Poiché, come è noto, da circa un anno l’inflazione è molto bassa il rinnovo contrattuale non può certo portare benefici consistenti.
Esattamente un anno fa avevo già rappresentato questa situazione (n. 39/2014 de «Il Sole 24 Ore Sanità») e riferivo che, paradossalmente, lo sblocco di alcuni istituti contrattuali (progressioni economiche per il comparto e fasce dell’indennità di esclusività per la dirigenza sanitaria) costituivano importi ben più sostanziali di un rinnovo generalizzato che la legge 190/2014 bloccò per un ulteriore anno e che fu successivamente cassato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 178/2015.
E allora perché tanto meravigliato sdegno? La spiegazione potrebbe risiedere nell’intenzione da parte di qualcuno di superare le regole così rigorose a causa del potere d’acquisto complessivamente perso in questi sei anni. Se è così la tesi è del tutto irrealistica perché è plausibile che il Governo non accetterà mai di mettere in discussione le regole generali della contrattazione collettiva. Tra l’altro queste regole così “rigorose” sono contenute in un Accordo che venne firmato dalle Confederazioni sindacali (eccetto la Cgil, è doveroso ricordarlo). Semmai ci sarebbe da chiedersi perché in tutti questi lunghi anni non si è ancora stipulato l’accordo quadro per la definizione dei quattro comparti (da 12 che erano) di contrattazione.
Il Sole 24 Ore sanità – 28 ottobre 2015