«Siamo preoccupati, terrorizzati dall’andamento dell’economia reale nel paese e in particolare del Nord». Giorgio Squinzi lancia un nuovo grido d’allarme sulla situazione del paese. E torna ad incalzare il governo sull’urgenza di misure per la crescita: vanno fatte, e «in fretta», ha detto il presidente di Confindustria, «perché non ho mai visto politiche e strategie costruite su macerie cercate con cura, quasi con ostinazione».
C’è in gioco la «sopravvivenza» del paese. «Nei prossimi mesi qui, in pianura padana, lungo l’asse del Po o lungo l’asse della via Emilia, si gioca la partita per essere ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa».
È esplicito Squinzi nel descrivere la situazione grave dell’economia italiana, mentre parla al convegno della Fondazione Tempi “Far ripartire il Nord per fare ripartire l’Italia”, a Sesto San Giovanni, una delle città simbolo del manifatturiero. «La questione settentrionale – che Squinzi ha sollevato già nel suo primo discorso da presidente di Confindustria – è la sindrome del motore che comincia a battere in testa in una macchina ancora funzionante e potenzialmente sana». Dall’inizio della crisi, nel 2008, a oggi i problemi che le aziende devono affrontare «sono ancora lì». Se qualche piccola risposta c’è stata, «purtroppo è stata solo parziale e contingente». Eppure le imprese, ha continuato il presidente di Confindustria, chiedono cose semplici, che «dovrebbero essere quasi scontate», ed invece «sembra impossibile ottenere». Una burocrazia non asfissiante, un fisco non invasivo, un costo del lavoro al livello degli altri paesi industrializzati, infrastrutture «degne del secondo paese manifatturiero d’Europa», un costo del denaro accessibile per finanziare gli investimenti, giustizia in tempi rapidi, una digitalizzazione all’altezza dei nostri paesi competitori. «Si chiedono le riforme strutturali in grado di liberare forza e potenzialità delle imprese».
Ma, ci tiene a precisare Squinzi, «non è la lista della spesa di un sistema produttivo che ha rinunciato a rimboccarsi le maniche». È «il grido di soccorso di chi vuole continuare a lavorare e ne è impedito, vuole operare per il benessere del paese. Prova inoppugnabile è chiedere ai tanti gruppi esteri che vorrebbero investire in Italia perché esitano». Dal 2008 la manifattura ha perso il 25% della produzione, i dati raramente sono positivi in misura sostanziosa. Ma è anche vero che esistono settori con segnali di vitalità: le macchine di imballaggio per esempio sono un caso di eccellenza, hanno chiuso il 2013 superando i 4,5 miliardi di fatturato, con un export superiore al 90% e un terzo della produzione mondiale. Ce ne sono altri, dall’alimentare alla farmaceutica alla meccanica di precisione, «e l’elenco non è breve». Bene le ultime novità della vicenda Electrolux, che non chiuderà lo stabilimento di Porcia: «Tutto quello che crea lavoro è positivo».
Ma c’è un rischio che incombe: e cioè che «senza un sistema paese e in assenza di una seria, incisiva, continuativa politica industriale anche la resistenza dei più forti venga meno e sarebbe il crollo dell’intero castello». Ecco perché è urgente mettere mano al tema di quale politica industriale dare all’Italia. «Altrimenti alla questione settentrionale dovremo aggiungere una questione internazionale: nessuno investe in un paese dove per una licenzia edilizia occorrono tre anni, se hai la fortuna di ottenerla». Ciò che è in gioco, ha concluso il presidente di Confindustria, non è solo l’evoluzione della questione del Nord: «Si pone una questione generale in termini di sopravvivenza».
Il Sole 24 Ore – 9 febbraio 2014