La sfida della sostenibilità nella “spending review” all’esame del Governo. Analizzati 60 anni di dinamiche della spesa pubblica italiana.
Una realtà bifronte: “Espressione della coscienza collettiva e ostacolo alla crescita economica”. L’anomalia delle governance di sanità e istruzione
“La spesa pubblica e la sua dinamica, le sue componenti e i suoi livelli si presentano con le facce cangianti che, nell’ultimo atto, il coro di popolo attribuisce all’Anna Bolena di Donizetti vedendola ora ‘componendosi in un sorriso’, ora ‘triste e pallida com’ombra in viso’”.
Questa una delle definizioni della spesa pubblica data Piero Giarda nel Rapporto su ‘dinamica, struttura e governo della spesa pubblica’, più noto come “Spending Review” della spesa pubblica italiana, redatto al tempo del suo incarico alla guida della commissione costituita nel precedente governo dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nell’ambito dei lavori preparatori per la delega fiscale e assistenziale.
Ma con la fine del Governo Berlusconi, il rapporto non è finito nel cassetto. Sarà anche per il fatto che nel frattempo Giarda è diventato ministro per i Rapporti con il Parlamento nel nuovo Governo Monti. Fatto sta che ora, della “spending review” di Giarda, si sta occupando anche il nuovo Esecutivo che gli ha dedicato un’apposita sezione di esame nel Consiglio dei ministri di venerdì scorso.
Tre i capitoli del rapporto. Nel primo è contenuta una descrizione della spesa, il secondo capitolo traccia una classificazione di ciò che deve essere considerato ‘’spreco’’ mentre il terzo capitolo riguarda il patto di stabilità interno.
“La revisione della spesa ha due obiettivi. Il primo – spiega il ministro Giarda – è quello di restituire al settore privato attività e interventi che non hanno più ragione di essere pubblici. Il secondo è di garantire efficienza nella parte che rimane al settore pubblico con lo scopo di concentrare l’azione su chi ne ha bisogno”.
Vale quindi la pena rileggere il corposo reportage di 51 pagine, dalle quali traspare con evidenza come la spesa pubblica italiana sembri caratterizzata innanzitutto da un’ambiguità di fondo: “Espressione della coscienza collettiva e ostacolo alla crescita economica. Scelta di democrazia e fonte di pratiche improprie. In ogni caso, capace di attirare crudi enunciati di disaccordo politico”.
A prescindere dalle definizioni personali, Giarda nel suo rapporto ne analizza e ne spiega tutti i meccanismi e gli andamenti economici, sociali e politici susseguitesi negli ultimi 60 anni, suggerendo anche alcune ‘ricette’ su come riuscire a riformare la spesa pubblica.
La dinamica di crescita: dal 23,6% del Pil del 1951 al 51,2% del 2010
Il metodo seguito, che mette in chiaro un primo tentativo di affrontare a 360 gradi la questione, segue un filone analitico preciso. In primis, vengono presentati i numeri, tutti ricavati da dati Istat, in cui si evidenzia il balzo dall’incidenza del 23,6 per cento sul Pil nel 1951, fino al 51,2% nel 2010. Una crescita, a cui vanno sommati anche gli interessi sul debito che hanno visto la propria quota sul Pil crescere lentamente negli anni dal 1951 (anno nel quale era pari all’1,2%), al massimo del 12,7% nel 1993, per scendere poi gradualmente fino al 4,8% nel 2010.
Ciò però che più sorprende a livello numerico è come nel sessantennio preso in esame si sia drasticamente ridotto il peso delle componenti tradizionali dell’intervento pubblico: la fornitura di servizi pubblici, le spese per trasferimenti di sostegno alle famiglie e gli investimenti pubblici. Complessivamente queste tre categorie di spesa assorbivano l’81,9% del totale nel 1951, il 59,8% nel 1980 e il 57% nel 2010. Ma l’elemento chiave nella dinamica della spesa pubblica italiana, come segnala il rapporto “è costituito dalla dinamica della spesa per pensioni, che assorbiva circa il 10% del totale della spesa nel 1951 e saliva al 22,7% nel 1980 e al 30,2% nel 2010”.
La sanità supera l’istruzione
Da segnalare, inoltre, la sostituzione avvenuta negli ultimi 60 anni di spesa sanitaria al posto di spesa per l’istruzione (la spesa per la sanità è passata, dal 29,7% del 1951 al 33,8% del 2010, mentre si è ristretta la spesa per istruzione, dal 25,7% al 20%). Sul tema il rapporto segnala come “ci siano tracce documentali che la sostituzione sia stata anche l’effetto voluto di esplicite decisioni politiche assunte per adattare l’offerta alla mutata struttura della domanda o dei bisogni della collettività”. C’è però un evidenza, che il rapporto Giarda sottolinea con precisione. Ovvero che “l’attuale assegnazione dei compiti di gestione della scuola allo Stato (e ai sindacati) e dei compiti di gestione della sanità alle Regioni, ha inserito nel processo decisionale sui due più importanti beni di consumo collettivo, una permanente disparità di peso politico che ha condizionato i processi di decisione in materia di allocazione delle risorse all’uno o all’altro servizio. Non è ovvio che le profonde modifiche nel mix di spesa per i due servizi si sarebbero verificate se essi fossero stati nella comune responsabilità dello stesso livello di governo, quale che esso fosse”.
Gli sprechi e l’incapacità di adeguarsi alla domanda
I numeri del rapporto servono certamente a disegnare un quadro della situazione, ma lo studio di Giarda non si ferma ai numeri e va oltre. Nell’analisi, infatti, vengono evidenziati gli sprechi e le inefficienze che hanno contraddistinto la gestione della spesa pubblica italiana. Vengono infatti considerate le inefficienze nella produzione, “considerando i modi di produzione dei servizi pubblici, la trascuratezza delle decisioni, le modalità di utilizzo del personale pubblico” e i prezzi di produzione maggiori pagati dal pubblico. Per la sanità, come esempio, il rapporto segnala il caso, più volte riscontrato nell’acquisto di farmaci, che diverse aziende sanitarie pagano prezzi diversi per lo stesso prodotto.
Poi sono evidenziate le forme di inefficienza “connesse al mancato aggiustamento della struttura della spesa ai mutamenti della domanda” ovvero dei bisogni della collettività, in cui si sottolinea come “il decentramento istituzionale può divenire, se incompleto, fonte autonoma di inefficienza gestionale”. Proprio su questo aspetto il rapporto Giarda evidenzia come dalla nascita delle Regioni in poi, nonostante gran parte della spesa si sia spostata dall’amministrazione centrale a quelle locali, si è assistito ad “elevati differenziali di crescita della spesa per servizi di amministrazione generale sia nell’amministrazione locale che nell’amministrazione centrale”, che “non dimostrano in modo conclusivo né la proposizione, accreditata da molti osservatori, secondo cui il decentramento dei compiti avrebbe prodotto più duplicazioni di strutture che riduzione della burocrazia, né la proposizione che le istituzioni politiche e la burocrazia del settore pubblico sia siano progressivamente ingrossate nel tempo”.
Le “mille” facce della privatizzazione
Tuttavia, nel rapporto si evidenzia come “i dati descrivono un carattere dello sviluppo del settore pubblico abbastanza inspiegabile e portano qualche argomento a sostegno della tesi che i modi con cui il decentramento delle attività e lo smagrimento della macchina pubblica finora realizzati non sono stati coerenti con le indicazioni che potrebbero ricavarsi dalle più semplici regole dell’efficienza produttiva e dalle più complesse regole dell’efficienza economica”.
Proprio al fine di ‘smagrire’ la macchina pubblica il rapporto ritiene poi utile interrogarsi “se parti delle attività oggi svolte dal settore pubblico che siano finanziate con forme di prelievo coattivo (tributi di vario genere) possano essere affidate a decisioni e gestione da parte di strutture non pubbliche finanziate da prezzi e tariffe caricate agli utenti”. A questo punto Giarda analizza le varie opzioni che possono realizzarsi tra il pubblico e il privato per la gestione della spesa pubblica. Ma a prescindere dal fatto che vi sia o meno l’esigenza di aprire sempre di più al privato nella gestione della spesa pubblica, ciò che Giarda evidenzia è il dato che, per ridurre la crescita della spesa pubblica, si debba prima di tutto, ed è qui che Giarda fa la sua proposta, rivedere i criteri del Patto di stabilità interno e delle regole e procedure da applicare “per renderne il funzionamento coerente con la progressiva riduzione del deficit del conto delle pubbliche amministrazioni richiesta dal coordinamento internazionale delle politiche di bilancio”.
L’obbligo di frenare la spesa: il sistema sostenibile solo con incrementi massimi dello 0,5% l’anno
Giarda suggerisce “di utilizzare, per misurare il concorso delle amministrazioni locali al processo di risanamento finanziario, il saldo definito come differenza tra spese finali dell’ente e entrate proprie”. Suggerisce poi “regole oggettive per definire la quota di miglioramento da assegnare al sistema delle amministrazioni locali, a ciascun livello di governo e a ciascun ente territoriale”. E propone che “la verifica del rispetto del patto sia fatta per l’intero sistema delle amministrazioni locali su base regionale”. Ciò, evidenzia il rapporto “consentirà di mediare tra le diverse dinamiche della spesa per investimenti dei diversi enti territoriali”.
Obiettivo primo della riforma, in ogni caso, è di disegnare “una politica di bilancio atta a portare la crescita della spesa al netto degli interessi, misurata in termini reali, su un tasso medio annuo di lungo periodo non superiore allo 0,5% all’anno”. Se si riuscirà in questo intento a noi non è dato dirlo, ma “in ogni caso – si legge nella parte finale del Rapporto – il settore pubblico ha bisogno di qualche decisione radicale per rimediare alle inefficienze allocative che sono presenti nella produzione dei servizi pubblici e alle inefficienze legislative gestionali in molti dei comparti di spesa con finalità redistributive. Ha anche bisogno di manutenzione ordinaria, di piccole riforme e opere buone oltre che, se è consentito, un po’ di rispettoso affetto”.
Luciano Fassari – quotidianosanita.it – 3 febbraio 2012