Quella che sta per arrivare non sarà una Legge di stabilità in linea con il Fiscal Compact europeo. Almeno, non lo sarà in un dettaglio fondamentale: perché non ridurrà il deficit, né il debito.
QUESTI sono stati mesi di incomprensioni, navigazione a vista, giochi delle parti senza sorprese. Da un lato il governo di Matteo Renzi che debutta a Bruxelles sotto i vessilli della “flessibilità”, cercando di trasformare il successo alle europee in miliardi in meno di tagli di spesa o di aumenti di tasse nella Legge di stabilità. Dall’altro la risposta da Berlino, Francoforte e dai politici vicini alla Germania, un mantra uguale e contrario: le regole di risanamento del Fiscal Compact si rispettano e basta.
La novità emersa a margine dell’incontro dei ministri finanziari europei ieri a Milano, l’Ecofin “informale”, è che ora sono più chiare le ricadute di questa dialettica. Non che stia emergendo un’intesa fra le parti nella discussione. Il governo Renzi e gli interpreti più ortodossi del Fiscal Compact nella Commissione Ue, nella Banca centrale europea, a Berlino, Helsinki o Vienna sono in disaccordo come prima. Ma ora si capisce meglio ciò che su questa base sta per accedere, e le potenziali conseguenze: senza chiedere prima il permesso, l’Italia tra quattro settimane presenterà una Legge di stabilità fuori linea rispetto alle prescrizioni del Fiscal Compact europeo. L’impianto della manovra finanziaria non mirerà a rispettare il cosiddetto obiettivo europeo “di medio periodo”, il pareggio di bilancio calcolato al netto delle fluttuazioni dell’economia. In altri termini, l’intervento sui conti dello Stato del 2015 non ridurrà sostanzialmente il deficit e non cercherà di far scendere il debito. A margine dell’Ecofin ieri a Milano, è emerso che Renzi intende prendersi lo spazio di “flessibilità” che ha sempre chiesto, senza prima vederlo riconosciuto dai suoi interlocutori europei.
Tutti i margini che creerà una correzione dei conti da circa 20 miliardi nella Legge di stabilità, secondo i piani del governo, sarebbero usati a favore di misure per la crescita. Oltre a rendere stabile il bonus di 80 euro sui redditi dei ceti medi, il Tesoro e Palazzo Chigi pensano a due misure ulteriori. La prima è una riduzione del costo del lavoro per le imprese, sulla base di due ipotesi: un taglio dei contributi oppure dell’Irap, la tassa sulle attività produttive che – perversa- mente – sale con l’aumento del numero di dipendenti di un’azienda, anche quando questa è in perdita. La secondo misura a cui si sta riflettendo riguarda un pacchetto di incentivi per ricerca e sviluppo, un’area su cui l’Italia è molto indietro nel confronto europeo. La Legge di stabilità punta dunque a un deficit del 2015 quasi invariato rispetto a quest’anno, cioè al 2,8 per cento o 2,9 per cento del Pil. Appena sotto al tetto del 3 per cento, ma di pochissimo, sulla base di una previsione di crescita che per l’anno prossimo il governo dovrebbe fissare intorno allo 0,5 per cento. Una scelta del genere ha tutta l’aria di essere una sfida aperta a Berlino e alla nuova Commissione Ue di Jean-Claude Juncker. Ne ha l’aria perché crea un fatto compiuto senza chiedere il permesso. In privato il premier Renzi ha fatto un commento che lascia capire come, peraltro, questa possa essere una strategia duratura: «La battaglia per la flessibilità ci permette di stare tre anni alle nostre condizioni». Il governo spera però di raggiungere un compromesso successivo con Bruxelles sulla base delle riforme che ha in preparazione. «Questa battaglia – ha aggiunto Renzi sempre in privato – ci permette di scambiare flessibilità con riforme e facilita il piano di investimenti europei da 300 miliardi ».
A fine ottobre dovrebbe essere presentata la delega sul lavoro e, nelle intenzioni di alcuni, dovrebbe includere una modifica sull’aspetto più delicato: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che regola i licenziamenti di chi ha un contratto permanente. Su questo punto, almeno per ora, nel governo si sta lavorando a una modifica: per il lavoratore licenziato, cadrebbe il diritto di reintegro con una sentenza della magistratura, e verrebbe sostituito con un indennizzo in denaro. Il Tesoro e Palazzo Chigi contano che entro aprile la riforma sia approvata e messa in opera. La speranza di chi governa in Italia è che questa svolta contribuisca a rendere più benevolo a Bruxelles anche il giudizio sulla Legge di stabilità, previsto fra aprile e giugno prossimo. In sostanza l’Italia ha deciso di ignorare il Fiscal Compact adesso, per poi fare riforme che in seguito invoglino il resto d’Europa a considerare il Paese comunque in regola.
Naturalmente non mancano le incognite, in una strategia del genere. Nell’ultimo decennio, per esempio, il Tesoro è sempre stato troppo ottimista nello stimare la crescita del Paese: se anche nel 2015 dovesse sbagliare per eccesso, si rischierebbe di sfondare il tetto del 3 per cento di deficit e il governo può finire subito sotto pressione per approvare una manovra correttiva sui conti in corso d’anno: sarebbe una mossa che può aggravare la recessione. L’altra incognita deriva dalla capacità del premier di far approvare in tempo la riforma del lavoro e passare tutti i decreti amministrativi che la attuano. Ma soprattutto, non è certo a priori che in Europa il giudizio sulla riforma del lavoro sarà così positivo da permettere all’Italia di ignorare il Fiscal Compact.
Se le cose non andranno come conta Renzi, esiste la possibilità concreta di una procedura a Bruxelles sui conti dell’Italia e di conflitto crescente con Berlino. Ma il governo ha fatto la sua scelta. Il treno è partito dalla stazione, nella speranza che non deragli ai primi scambi.
Repubblica – 14 settembre 2014